2. Dolore

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It’s in the stars,
it’s been written in the scars on our hearts
We’re not broken, just bent,
and we can learn to love again.

È nelle stelle,
è scritto nelle cicatrici dei nostri cuori
Non siamo rotti, solo piegati,
e possiamo imparare ad amare di nuovo.

Da “Just give me a reason” di Pink

Logan

Mi trascino sul pavimento come uno zombie, le gambe ormai mi reggono a stento.
È notte fonda, oserei dire senza luna, dato che ormai da tempo la sua luce non mi meraviglia più.
Anche stanotte ho fatto un buco nell’acqua, l’unica differenza è che lo stronzo che mi sono trovato davanti era un bel tipetto che mi ha fatto sudare.
Ho il suo sangue sulle nocche, e anche sulla camicia.
Però, nonostante questo, non ho niente in mano.
Di nuovo.
Il bastardo che ha mandato a puttane la mia esistenza, sembra essersi nascosto in un buco di culo introvabile.
Nessuno ha avuto contatti con lui di recente, nessuno sa esattamente chi fa tutto il lavoro per lui. Nessuno lo ha visto, nessuno ci ha parlato guardandolo negli occhi.
Niente negli ultimi sette mesi.
Ha disperso ogni sua traccia, si è ridotto ad essere un fantasma senza faccia, ma comunque manda avanti i suoi affari.
Per quattro anni mi sono nascosto nell’ombra, ho cambiato la mia identità, perso tutto quello che conoscevo e dato vita a qualcosa di nuovo.
So cosa significa nascondersi, occultare le prove del tuo passaggio, dimenticare il tuo nome e impossessarti di un altro.
Credevo di essere stato bravo in questo, ma mi sono evidentemente sbagliato.
Lei mi ha fottuto.
Quei suoi dannatissimi occhi verdi che ogni notte mi apparivano in sogno, per tutti quegli anni.
Le sue mani fastidiosamente piccole, le sue lentiggini, il suono melodioso della sua risata.
È stato l’amore per lei a fottermi.
L’indomabile desiderio di riaverla.
Comunque, tutto questo è storia vecchia ormai.
Non credo dimori più amore nel suo cuore, non per me almeno.
Lo comprendo, neanch’io amo me stesso.
Ha fatto bene ad andare via, ha salvato sé stessa prima che fosse troppo tardi. È stata coraggiosa, e caparbia.
Per fortuna si è trasferita in Spagna, ora. La consapevolezza di averla così vicina mi avrebbe sicuramente impedito di concentrarmi sulla mia missione.
Spero non torni. Se lo facesse, correrei il rischio di mandare tutto a puttane un’altra volta.
No. Stavolta no.
A tentoni nel buio, raggiungo la cucina e mi lascio cadere su uno degli sgabelli. Dio, mi sento come se mi avessero aperto in due e poi ricucito.
Appoggio la testa sul bancone, sfinito, chiudo gli occhi e mi gusto il rumore del silenzio.
Un orologio produce un fastidioso tic-tac da sopra il camino, e se ne avessi le forze mi alzerei per romperlo in mille pezzi.
Poggio i palmi uniti sul bancone, e faccio per poggiarci sopra la fronte, ma non appena ci provo una fitta di dolore mi fa bruciare le nocche.
Inspiro tra i denti e cerco le forze per dirigermi in bagno per medicarmi le ferite, invano.
Proprio in questo momento la luce della cucina si accende all’improvviso, facendomi sussultare e stringere le palpebre per abituarmi alla luce.
<Una vita frenetica, la tua.>
Maverick si muove alle mie spalle fino a raggiungere il frigorifero di fronte a me, io lo osservo in silenzio pregando che si levi di torno il prima possibile.
Recupera una bottiglia di acqua fresca, e poi un bicchiere, che riempie e me lo fa scivolare davanti.
Non ho mai detto di avere sete.
<Che hai risolto?>
Lo guardo aggrottando le sopracciglia.
<Cosa?>
<Questa tua...>
Abbassa lo sguardo prima sulla mia camicia macchiata di sangue, e poi sulle mie nocche spaccate, disegnandosi in volto una sorta di disgusto.
<...attività di stanotte, dove ti ha condotto?>
Distolgo lo sguardo sorridendo, dopo aver capito dove vuole andare a parare. Sono sette mesi che ci prova.
<Nel paese delle meraviglie.>
Rispondo sarcastico, infilandomi le mani in tasca.
Estraggo il pacchetto di Winston blu un po' ammaccato, prendo una sigaretta con i denti, e mi frugo di nuovo in tasca in cerca dell’accendino.
Nel frattempo Maverick schiocca la lingua e scuote la testa, come se non me ne accorgessi.
<Che c’è?>
Dico, una volta trovato l’accendino e accesa la sigaretta.
<Vorresti venire anche tu a trovare il Bianconiglio?>
Si volta per rimettere la bottiglia in frigorifero, e nel frattempo io appoggio le caviglie incrociate sul bancone, nuvolette di fumo bianco salgono fino al soffitto e si disperdono.
<Sei un coglione.>
Borbotta lui, mentre io faccio un lungo tiro dalla sigaretta ed evito di rispondere.
<Perché ti comporti così?>
Sbotta poi, tornando a voltarsi verso di me e allargando le braccia.
<Così come?>
Lo sfido, con un ghigno.
<Come un coglione.>
Sbuffo una risata e prendo a studiare la sigaretta che mi si consuma tra le dita.
<Tornatene a dormire.>
Gli dico, inclinando la testa.
A volte mi sento proprio così, come questa sigaretta.
Piano piano mi consumo, vittima del vento, del tempo. Ed io sono inerme, immobile, non riesco a fare niente per impedirlo, non riesco a spegnermi.
<Tutti soffriamo, Logan.>
Torno a guardarlo, lo sguardo freddo come il ghiaccio e severo come un giudice.
<Io non sto soffrendo.>
Sentenzio, e mentre lo dico me ne convinco.
<Si, certo.>
Faccio l’ultimo tiro, poi spengo il mozzicone sul marmo del bancone.
<Hai finito?>
<No che non ho finito!>
Urla, come se non fosse piena notte ed io non fossi schiavo di un atroce mal di testa, risultato del troppo alcol e del poco sonno.
<Non finirò finché tu non tornerai com’eri prima.>
<E com’ero prima?>
<Gentile, allegro, speranzoso. Più intelligente.>
Sorrido, alzando le sopracciglia.
<Credi che io sia stupido, ora?>
<Si, sei stupido.>
Gira intorno al bancone e si ferma davanti alle mie gambe distese.
<Ora sei stupido, sei stronzo, e un coglione.>
Ridendo, mi alzo dallo sgabello barcollante, e faccio per andarmene, ignorandolo.
<Uccidere quel bastardo non la farà tornare da te!>
Sbraita alle mie spalle, e la sua voce sembra esausta anche più di me.
<Io non voglio che torni da me.>
Borbotto, abbassando la testa ad osservare il pavimento.
E lo credo davvero, è meglio per tutti.
<Si, invece.>
Mi giro di scatto e con due ampie falcate mi ritrovo di fronte a lui, il suo naso ad un soffio dal mio.
<Che cazzo ne sai tu di quello che voglio io?>
Lui, in tutta risposta, non indietreggia, anzi sostiene il mio sguardo.
<Lo so, perché tu sei mio fratello.>
Sputo una risata, indietreggiando di qualche passo.
<Vogliamo parlare di te, invece?>
Butto fuori, e so già che me ne pentirò quando avrò finito.
<Vai ancora al Saudade’s per supplicare la biondina?>
<Lasciala fuori.>
Sorrido, consapevole del veleno che sta per uscirmi di bocca.
<Quello che fai è patetico, fratello.>
Lo vedo stringere i pugni lungo i fianchi, e lo conosco abbastanza da sapere che lo sto facendo arrabbiare.
<Che fai, vai lì e la implori di perdonarti? Magari ti metti anche a piangere?>
<Non ti riguarda.>
E adesso, sto per dargli il colpo di grazia.
<Supplicare una puttana è patetico.>
Faccio in tempo a finire la frase, le mie ciglia si fermano a mezz’aria, e Maverick si getta su di me.
Mi lascio cadere sul pavimento senza che lui compia alcuno sforzo, e quando mi immobilizza con le ginocchia e inizia a colpirmi il volto, assaporo il suono di ogni pugno.
Aspro, pungente, metallico, ogni colpo mi entra dentro ed io mi perdo ad analizzarne ogni sapore. Gli do una consistenza, un colore, un profumo, un’essenza.
Finalmente, il mio migliore amico mi da ciò che volevo da tempo, e che ho ricercato senza sosta.
Dolore.
Un dolore devastante, che mi scuote tutto il corpo, e che ricorda al mio cuore come si batte.
Un dolore che finalmente esce dal mio petto, e si riversa nelle ossa, perché era così tanto che sotto la pelle non ci stava più.
Finalmente il mio dolore abbandona la sua tana tra le costole, e ora lo sento sul corpo come se fosse vivo, reale.
Ma improvvisamente Maverick si blocca, guardandomi dall’alto e scuotendo la testa.
<Era ciò che volevi.>
Si rende conto, osservandomi arreso sul pavimento.
<Volevi provare dolore.>
Ancora scuotendo la testa, si alza da sopra di me e fa un passo indietro.
<Perché, Logan?>
Osservo il soffitto di casa mia, respirando piano e sbattendo le palpebre lentamente, il viso che mi brucia.
<Perché dentro mi fa più male.>
Gli confesso, abbandonando ogni spavalderia.
Lui, senza dire niente, si passa prima una mano tra i capelli e poi si allontana, sparendo oltre le scale.
Io resto disteso sul pavimento, e adesso riesco a vedere la luce della luna che entra dalle vetrate.
Tom ci ha lasciati tre mesi fa, è andato via quando ha smesso di sopportare la mia follia.
Non lo biasimo per questo, anche lui ha fatto bene a scappare da me.
Però Rick…
lui è sempre rimasto.
Lui c’è sempre stato, da quando ci siamo incontrati per la prima volta.
Io avevo ventuno anni, lui ancora venti.
Stavo scappando da un anno ormai, e una notte d’inverno mi ritrovai a girovagare tra i vicoli italiani, nella maestosa città di Firenze.
Ero perso tra i miei pensieri, schiavo delle paure e dei sensi di colpa, finché da lontano non sentii il dolce suono di un pianoforte.
Seguii quel suono come se potesse condurmi al paradiso, come se fosse un percorso tracciato solo per me alla ricerca della felicità.
Arrivai fino ad una porta rossa, e bussai senza rifletterci, volevo solo capire dove voleva condurmi la melodia di quel piano.
Quella fu la prima volta che incontrai gli occhi color caramello di Rick.
Quando li vidi, capii subito che anche il suo cuore portava le cicatrici, e che un dolore simile al mio dimorava sotto le pieghe della sua pelle.
I genitori di Rick morirono quando lui aveva quattordici anni, e la cosa peggiore è che ne fu testimone.
Possedevano un vecchio negozio di dischi, un piccolo stanzino pieno di musica, diceva lui. Un’attività tramandata negli anni, da generazioni, finché Mav non rimase l’unico.
Un giorno, mentre lui studiava con attenzione gli ultimi arrivi di dischi nel magazzino, sentii un tonfo provenire dal negozio.
Si avvicinò già tremante, il passo leggero di un ragazzino.
Una rapina, come se quel negozio potesse contenere chissà quali tesori.
Lui rimase ad osservare dallo spiraglio della porta, il cuore in gola.
Il padre, coraggioso come il figlio, tentò di fermare i rapinatori, ma uno di loro perse il controllo e gli sparò un colpo dritto al petto.
A quel punto la madre iniziò ad urlare troppo, gettandosi sul corpo già privo di vita del marito, e allora il rapinatore sparò un colpo anche a lei per zittirla.
Mav non riuscii più a muoversi da quel momento, e continuò ad osservare dallo spiraglio i rapinatori che scavalcavano i corpi dei suoi genitori per svuotare la cassa del negozio.
Rimase lì immobile anche dopo, anche quando se ne furono andati.
Rimase a fissare la sua famiglia, accasciata sul pavimento, anche lì unita da un abbraccio. Li guardò, pregando in silenzio che si rialzassero, e sbatté le palpebre più volte sperando fosse un sogno.
Si mosse solo quando la polizia, chiamata da uno dei vicini che aveva udito gli spari, aprì la porta dietro cui stava nascosto e lo trovò immobile.
Da quel momento le nostre vite si legarono, perché anche lui finì in una casa famiglia che gli insegnò a fuggire e a sopravvivere.
Quando a diciotto anni riuscì a liberarsi dalle restrizioni degli assistenti sociali, iniziò a rubare per sopravvivere, e si nascondeva in una catapecchia mezza cadente che un tempo era stata la sua casa.
Nel frattempo, tutto da solo, imparò a combattere e ad usare una pistola con una precisione impeccabile.
Doveva difendersi, doveva sopravvivere, doveva fare quello che i suoi genitori non erano riusciti a compiere.
Il destino mi ha condotto alla sua porta quella notte, e quando ci guardammo entrambi sentimmo il legame che tempo prima era stato scritto per noi.
Lui mi accolse senza pensarci, e da qual momento diventammo fratelli inseparabili.
Non amici, non compagni, non colleghi.
Famiglia, quella cosa che ci avevano strappato senza il nostro consenso.
Io gli raccontai la mia storia e lui la sua, e in quel momento sancimmo un patto silenzioso che rimarrà perpetuo nel tempo.
Io per lui, lui per me.
Così andarono avanti le nostre vite, l’uno la spalla dell’altro, un pugno sempre pronto a difendere, e delle braccia sempre pronte ad accogliere.
Quando gli raccontai di Amanda, e della voglia incessante che avevo di rivederla, lui sorrise e si portò una mano sul cuore.
<Quello è l’amore della tua vita.>
Mi disse, con un leggero luccichio negli occhi.
<Devi lottare.>
Aggiunse poi.
E mi convinse.
Ho sempre creduto nelle sue parole, perché la fiducia che ripongo in lui va oltre ogni cosa.
Mi aiutò a cambiare nome, a creare un’azienda che porta il mio cognome ma che appartiene ad entrambi come un patto di sangue.
E quando acquisimmo abbastanza sicurezze su diversi fronti, non abbandonò mai il mio fianco mentre tentavo di tornare dalla donna che amavo.
E fu proprio quando notai l’amore che anche lui ormai provava per lei, che capii che il destino è una cosa assai complessa.
Non un amore carnale, ma un amore genuino, fedele, come quello di un amico, di un fratello.
Il destino mi ha portato da lei, e poi mi ha condotto da lui affinché io potessi tornarci diverso.
Il giorno in cui decidemmo di tornare, però, nessuno di noi due avrebbe mai immaginato che sarebbe finita così.
E adesso io sono un corpo senza anima, un vegetale inutile e privo di significato. Mi trascino per il mondo come un fantasma affamato di vendetta, e consumo la mia vita come se non avesse valore.
Però Maverick c’è sempre.
Devo la mia vita a quell’uomo, anche se ultimamente preferirei che iniziasse a correre dal lato opposto, lontano da me.
Speravo che tornare avrebbe significato essere felici, per entrambi, e per un po' ci siamo riusciti.
Lui si è innamorato di quella ragazza con i riccioli d’oro e un sorriso abbagliante, ed io lo so anche da prima di lui.
La ama, e non c’è niente di patetico in ciò che fa quando va a trovarla al Saudade’s, anzi.
È coraggioso.
Lui sta lottando.
Io invece cosa sto facendo?
La donna che amo è a chilometri da me, probabilmente ormai mi odia e preferirebbe vedermi morto.
E io me lo merito.
So che è così, ed è proprio questa consapevolezza che mi fa muovere sulla Terra come un mostro fatto di torrido buio.
Io sarei pronto a dare fuoco al mondo per lei, ma se poi lei mi odia, cosa mi resta?
Un mucchio di cenere, un pugno di niente.
Vorrei solo far pace con i miei demoni, e rivedere il verde dei suoi occhi per l’ultima volta.
Dirle che l’amo, e poi spegnermi per sempre, continuando ad amarla anche oltre le catene della morte.

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