Capitolo 2 - Un momento Imbarazzante

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Mi sveglio stanca, ma non mi lamento. Non ho bisogno di dormire troppo oggi. Sono a Oxford. È strano, perché nonostante le mie incertezze, mi sento quasi... viva. Come se il mondo fosse appena iniziato ad aprirsi davanti a me. Forse è il fascino di un posto così storico, o forse è il fatto che ho finalmente iniziato a vivere qualcosa di grande.

La pioggia batte leggera contro la finestra, ma non mi scoraggia. Mi vesto in fretta, scelgo un maglione grigio semplice e un paio di jeans. Non voglio attirare troppe attenzioni, ma nemmeno sembrare una completa estranea. Quando arrivo nella sala comune per la colazione, noto subito che la gente qui sembra più... sicura. Più a suo agio. Un altro promemoria del fatto che io sono solo una matricola che cerca di adattarsi.

Veloce, mangio qualcosa e mi metto in cammino verso l'aula. Ho la mappa del campus in mano, ma riesco comunque a perdermi. Sospiro. All'ennesima curva sbagliata, una ragazza dai capelli ricci e occhi gentili mi aiuta a orientarmi. Non so come facciano tutti a sembrare così... esperti. Mi sento come una straniera, sempre un passo indietro.

Quando arrivo davanti all'aula, sono già in ritardo di qualche minuto. Apro la porta senza fare troppo rumore, ma gli occhi di tutti sono su di me. Mi sento un po' più piccola, come se mi stessero scrutando da ogni angolo. Trovo il mio posto vicino alla finestra, sperando di passare inosservata. La luce grigia del mattino entra attraverso i vetri, disegnando ombre morbide sul pavimento.

Il professor Clarke entra poco dopo. Mi dà un'occhiata veloce, come se avesse già capito che mi sono persa, arrivando in ritardo. La sua voce è profonda e suadente, e quando parla, tutti si zittiscono immediatamente.

«Buongiorno,» dice, guardandoci. «Benvenuti alla seconda lezione di Letteratura e identità culturale.». Inizia subito con una domanda, come se volesse metterci alla prova: «Cosa significa essere un "individuo"?»

Il silenzio cala, tutti gli studenti si guardano tra loro, incerti. Io stringo le mani sui miei appunti, cercando di non sentire la pressione.

Poi, la voce di Ethan si alza. È la stessa di ieri, calma, ma sicura. «Essere un individuo significa essere una persona con un'identità unica, che può riflettere su se stessa e scegliere come rispondere al mondo.»

Io resto in silenzio, ma sento un brivido di ammirazione. Ethan ha sempre quel modo di parlare, come se conoscesse ogni parola che pronuncia.

Il professor Clarke sembra apprezzare la risposta, ma non sorride. «Un'idea interessante, Ethan. Ma qualcuno potrebbe anche dire che l'individuo non esiste in modo separato dalla società. Che l'identità è il prodotto delle influenze esterne.»

Le dita mi tremano mentre scrivo, ma la mia mente non riesce a smettere di correre. La domanda è così semplice, eppure così complessa. Poi, improvvisamente, mi viene in mente un'idea. Non posso lasciarla scappare, così alzo la mano. Il professor Clarke mi nota subito, come se stesse aspettando un mio intervento.

«Liv?» dice, invitandomi a parlare.

«Penso che l'identità non sia mai fissa,» inizio, cercando di mantenere la voce ferma. «Che sia qualcosa di fluido, che cambia a seconda di come ci rapportiamo con gli altri e con il mondo. Non è solo il prodotto della nostra interiorità, ma anche del contesto in cui viviamo.»

Sento il suo sguardo su di me, e per un attimo, penso di aver detto qualcosa di banale. Ma il professor Clarke annuisce. «Un'osservazione interessante. La letteratura spesso ci aiuta a esplorare queste sfumature. Brava, Liv.»

Un piccolo sorriso si fa strada sulle mie labbra. Ho parlato. Non mi sono fatta prendere dal panico. Ma appena vedo Ethan, sento il mio cuore fare un salto. I suoi occhi scuri mi guardano da davanti, e c'è qualcosa nel suo sguardo che mi fa capire che ha capito perfettamente cosa intendevo.

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