Infanzia

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I miei ricordi cominciano con un abbraccio. Quello della mia bisnonna Ninnuccia che,seduta sul divano di casa,mi teneva stretto a sé. 

Non ricordo molto altro di lei,solo che con me era dolce più dello zucchero e mi trattava come il più prezioso dei tesori.Dai racconti e dalle tante fotografie rimaste nella mia casa di Cagliari,so però che era una donna piccola piccola,alta neppure un metro e cinquanta ,ma bellissima,che faceva la sarta.

E' morta quando io avevo quattro anni.

Poi c'è una trapunta ,che conservo ancora adesso,bianca con degli aeroplanini  rossi e verdi racchiusi in piccoli riquadri. Era la trapunta con cui mia madre mi copriva quando stavo nella culla,e che per me oggi è il simbolo di tutto l'amore che lei ha nutrito nei miei confronti fino a quando -quel 21 maggio del 1985- venni alla luce in un ospedale di Cagliari,fra pianti e strepiti.

Un bambino che urlava a pieni polmoni e che fu,per lei,la seconda grande gioia,dopo che,più o meno un'anno prima,a marzo,era nato mio fratello Federico.

Due figli che lei, neppure ventenne,dovette cominciare subito a crescere senza un compagno al suo fianco,dileguatosi per non affrontare quelle nuove responsabilità,ma con l'aiuto e l'affetto di una famiglia grande,grandissima.

La mia famiglia.

Abitavamo in una casa indipendente a due piani nel quartiere di Pirri,a nordovest della città.

Io,Federico,mamma,nonna Elsa,nonno Claudio e zia Cristina ,vivevamo al pianoterra,mentre al piano di sopra -in cima alle scale che partivano da un grande andito in cui ci si ritrovava non appena aperta la porta di ingresso- stava zio Gianni,il fratello di nonna, con la moglie, zia Angela, insieme ai loro figli: Katiuscia,Dany e Fabrizio.

Ma la mia famiglia non era tutta lì: oltre a un cane di nome Attila, un cocker rosso che si unì a noi quando io frequentavo la prima elementare,numerosi erano,infatti,i cugini e gli zii che abitavano nelle vicinanze,fra cui zia Sabrina,sorella di mia madre,più grande di lei di due anni e sposata con zio Carlo: lei,che ha i mie stessi colori scuri e d'estate si abbronza fino a sembrare africana,per me è sempre stata una presenza costante e fondamentale,fino a oggi,seguendomi in ogni passo della mia vita.

Era una cosa bella,la nostra:spaziosa,luminosa ,con un grande salotto,la cucina,tante stanze,due bagni e anche un piccolo cortile,con un fazzoletto d'erba in cui il mio bisnonno aveva piantato un'albero di limoni,i cui frutti gialli - e il giallo era il colore preferito sia della nonna Elsa sia di mia madre- rendevano quel cortile speciale.

Al di là dei muri che la circondavano,sui quali ogni tanto vedevo passare qualche gatto silenzioso,arrivato da chissà dove,sentivo le voci degli altri bambini  della zona,che insieme alla mia famiglia sono stati i protagonisti della mia infanzia.

In particolare Marco,il mio migliore amico del tempo,che abitava proprio nella casa di fianco. Bastava che urlassimo appena per sentirci: una volta a casa mia,una volta a casa sua,in pomeriggi di gioco fino a che non arrivava l'ora di cena. Le nostre due mamme si frequentavano e lui,più piccolo di me di due anni,mi era stato messo accanto,ancora nella culla. Così,mentre loro,ancora due ragazze in fondo,diventavano donne,noi due crescevamo pian piano insieme:prima piccoli divertimenti,poi i giri in bicicletta con glia altri ragazzini del quartiere fino al tragitto casa-scuola,che facevamo sempre in compagnia.

Sino al giorno in cui decidemmo di stringere un patto di sangue:migliori amici per sempre.Lo avevo visto fare in un film:ci si procurava un taglio e quindi si avvicinavano le ferite,in modo che il sangue di uno si mescolasse con quello dell'altro.

Così rubai una spilla dal portagioie di nonna -attento a che nessuno mi vedesse- e raggiunsi Marco,poi insieme ci arrampicammo su una pianta di mimosa in fiore.

Era il luogo perfetto.

Avvicinai la spilla alla punta del dito medio. Mi ci vollero un paio di secondi per trovare il coraggio di forare davvero la pelle,ma poi vidi formarsi una goccia rossa.

Allora dissi a Marco di fare lo stesso.Visto che lui era più piccolo,aveva molta più paura di me,e proprio per questo alla fine mi obbedì.

Si lasciò scappare un "Ahi!", ma fu un'attimo. La goccia rossa si formò anche sul suo dito.

"Ecco,adesso siamo pronti"annunciai in tono solenne.

Unimmo le dita e unimmo -così pensavamo a quell'età- pure i nostri destini: "Saremo amici di sangue per la vita" dissi io con lo stesso tono,e lui ripetè la formula.

poi quel pomeriggio,dopo essere corso a mettere al suo posto la spilla di nonna,giocammo ancora a lungo,felici di quel gesto che non avremmo raccontato a nessuno e che ci sembrava tanto speciale.

Ma il vero centro della mia vita era mia madre Monica,una "mamma a tempo pieno", come potremmo definirla oggi.La mia famiglia non aveva problemi economici,al tempo ,non c'era bisogno che lei lavorasse,e così aveva deciso che si sarebbe occupata di noi,senza mandarci all'asilo nido o lasciarci a casa con nonna o zia Cristina . "Voglio godermi i miei bambini" diceva,e così è stato.Cominciò a lavorare soltanto quando io diventai un pò più grande;a quel punto,però,la scoperta della malattia scombinò tutte le carte.

Seppure "a tempo pieno",mia madre non era una di quelle casalinghe sempre intente a cucinare ,a tenere in ordine la casa,a sgridare i figli se qualcosa era fuori posto.

Quella più tosto era zia Cristina,una donna piacente ed elegante,mora e con i capelli corti,sempre in ordine,che non si è mai sposata: la "signorina Cristina",come veniva chiamata. Lei ,che pure ci portava al mare e sapeva come essere divertente,era l'anima più seriosa della casa,ed era la più attenta a che io e Federico non sporcassimo in giro.

Il compito di rimproverarci,quando serviva,era a volte affidato anche a nonno Claudio,un uomo alto,stempiato,dolce ma introverso,a tratti persino burbero,mentre nonna Elsa,donna bellissima,spesso con la sigaretta in bocca,si mostrava più accondiscendente,addirittura complice.

Mia madre,insomma,non era una di quelle mamme col grembiule sporco di sugo,i capelli raccolti e le forme che si fanno via via più rotonde.

Era una trottola,sempre in giro,sulla sua Austin Metro rosso fiammante:per bar,a casa dei suoi amici -e ne aveva tantissimi,giovane com'era -, o per le strade di Cagliari a guardare le vetrine dei negozi,a scegliere i vestiti.

Era splendida quando entrava e usciva dai camerini e,sotto gli occhi divertiti dei commessi ,chiedeva a noi figli se quella gonna o quel maglioncino le donava oppure no.

E poi c'erano i giri per il nostro,di shopping :tute,scarpe,berretti,capi all'ultima moda che io non le smettevo mai di chiederle. Ogni mio capriccio era quasi un'ordine per lei,che viveva e faceva vivere a me e a Federico quelle giornate in un'atmosfera di gioia e di spensieratezza che ancora è bene impressa nella mia memoria,e che mi porterò dentro,per tutta la vita.

I giorni dell'infanzia sono così,nei miei ricordi.

Hanno il colore dei limoni che crescevano nel nostro minuscolo giardino,la luce delle splendidi giornate d'estate trascorse al mare,o all'aperto a giocare con gli altri bambini del rione,l'odore tutto speciale della mia casa,il calore dell'abbraccio di persone che mi dimostravano affetto,amore.

Se chiudo gli occhi,in un attimo è ancora tutto lì.Come se quello dell'infanzia fosse un tempo infinito,destinato a rimanere sempre in una sorta di universo parallelo che ci accompagna finchè viviamo.

Sono le nostre radici,l'humus da cui veniamo,ciò che ci ha nutrito.

Un'isola felice cui posso tornare,ogni volta che ne sento il bisogno.

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