In quei giorni a Seattle, c'era molto silenzio, non si sentiva nulla. Il che non era per niente normale. Mentre camminavo a vuoto, verso qualunque posto dove potevo riposarmi. Pensavo quando la mattina precedente ero a casa mia. Affacciata al balcone. In salvo. Perché mi caccio sempre nei guai? Perché non mi trattengo qualche volta.
E perché non vedo le stelle, il cielo blu notte? Perché ora c'è silenzio? La città, l'intero pianeta si sta estinguendo. Sono sola. Sono. L'unica. Sopravvissuta. Pensavo a qualunque cosa. Quasi con le lacrime agli occhi. Cercavo di spiegarmi cosa stesse succedendo.
Mentre camminavo arrivai in una stradina isolata, trovai una piccola abitazione, al suo interno vi era una lampadina accesa, che illuminava la stanza. Rimasi impassibile, non pensavo che ci fosse qualcuno ancora vivo. Dopo che nei telegiornali avevano ormai detto tutto. E che chiusero anche le camere giornalistiche. Erano tutti morti. 《Cosa... aspetta, forse è un tranello.》sapevo che non era qualcosa di buono. Ma ero debole. Dovevo entrarci. Aprii la porta. E con cautela entrai nell'abitazione. Stritolai con tutta la forza che avevo il coltello, nel caso in cui mi sarebbe servito per difendermi da quei mezzi umani che vogliono strapparmi le budella dal corpo. La casucola era perfettamente isolata. Nessuna anima viva. Ma nonostante ciò. Una cosa fra tutto mi colpì. Sopra il tavolo erano posizionati piatti e bicchieri posti perfettamente difronte alle sedie in legno. 《Ma che diavolo... Mi hanno spedita in "Biancaneve e i sette nani"?》 Dissi con stupore. Mentre mi aggiravo in quel posto strano, vidi una porta mezza aperta in fondo alla stanza. Vidi passare qualcosa. Una sagoma scura. Cercai di vedere bene. Stringendo gli occhi come una dannata cieca. Un suono assordante interruppe il silenzio stridente, sembrava un grido in lontananza. Mi avvicinai sempre di più alla porta. Ma sopra la maglietta azzurra, decorata da macchie di sporco, cadde un liquido mucoso giallastro. Alzai lo sguardo e vidi dallo spacco di due assi in legno, uno strano occhio verde guscio, che mi fissava. Mi sforzai di capire chi fosse, e afferrai che era uno zombi putrefatto, nonostante l'odore era di anatra all'arancia e patate bollite. Ad un tratto, l'inquietante individuo spaccó le due assi che gli impedivano di osservarmi con attenzione. E si lanciò come un paracadutista su un elicottero, sopra di me. Mi afferrò le braccia, così che non potevo attaccarlo. La sua presa era molto forte, mani d'acciaio. Cercò di mordermi il braccio. Io scalciavo nel tentativo di farlo cadere. Mentre cercava di mordermi, riuscii ad afferrare uno di quei piatti sopra il tavolo, e glielo sbattei in quella testa vuota, con mezzo cervello fuoriuscito. Cadde per terra, continuando a gridare come una donna al parto. Così decisi immediatamente di scappare. Ma un'altro mani d'acciaio cercò di difendere il suo socio. Era dal lato opposto a me. 《No-no, questo non si fa, bambolina.》facendo gesto di divieto col dito. Guardandomi ridendo. Ma poi afferrò immeddiatamente una di quelle sedie e cercò di tirarmela. In fretta mi abbassai, schivandola. Allora cominciò a tirarmi piatti, bicchieri. Io cercavo di coprirmi con le braccia, nascondendo la testa. Ma afferrai la sedia, che era accanto a me, e cercai di proteggermi. Mi misi vicino al tavolo. Ma al povero zombi finirono le armi di difesa. Infuriato si mise a correre verso di me. Afferrai il coltello e glielo piantai dritto nel petto. Scivolò per terra, e cadde. Recuperai il coltello. E mentre stavo per andare via, l'altro zombi si alzò in piedi, un po' stordito, ma pronto all'attacco. Corse verso di me. E spaccai il suo petto col pugnale. Gocce di sangue erano sparse ovunque. Persino sul mio viso, pallido. A questo punto fuggii. Scappai da quella dolce casa gialla, ormai dipinta di rosso. E corsi, in cerca di aiuto, corsi come se non ci fosse un domani, sembravo un giocatore di rugby che correva in campo.
Mi girai e vidi il nero più totale.
Rallentai un po', per recuperare fiato. Ormai le mie Converse nere si erano rovinate a tal punto da spaccarsi. Poco più avanti da quella strada, vi era una piccola piazzetta. Mi avviai, incredula della sua esistenza. Vidi che c'era una panchina proprio sotto un lampione quasi fuori uso, si stava spegnendo. Mi sedetti, e tutta la tensione filò via. Il cuore batteva forte dalla paura che avevo avuto negli ultimi giorni. Non avevo chiuso occhio. Così mi accovacciai nella panchina, e mi addormentai. Mi svegliai a causa di un rumore assordante. Sembrava un camion che si avvicinava verso di me. Scattai in piedi e mi nascosi dietro un cespuglio. Vidi passare quel camion, sembrava trasportasse carne. Forse va a prendere i corpi di quelle persone che vidi dentro quella casetta malconcia, buia e impolverata, due notti fa. Dissi tra me e me. Ma chi lo sta guiando se qui, esseri umani come me, non ce n'è più, poiché probabilmente sono stati sbranati da quei mangia budella di mostri che camminano?
Decisi di seguirlo, ma prima feci una coda spettinata ai miei capelli color mogano invecchiato, con sfumature rosso scozzesi. Mi alzai da terra e seguii il camion. Stavo percorrendo un viale poco più a sud dallo Space Niddle, che si intravedeva da lontano. Non riuscivo più a camminare. Il peso della stanchezza si faceva sentire eccome. Talvolta crollava la palpebra dal sonno che sentivo. Ma di scatto come un gatto spaventato la riaprivo. Camminai seguendo il camion finché non si fermò in un vicolo cieco, come se avesse visto che io lo stavo seguendo e che voleva farmela pagare. Rivolgo un sguardo deciso al camion. Con tono di sfida, mi avvicino con molta cautela. Pian pianino, un passetto dopo un passetto, stavo arrivando al camion. Sentivo il fastidioso prurito del sudore che colava dalle tempie, e il calore che sentivo dentro di me mi dava su di giri, cercavo di asciugare il sudore che si era depositato nella maglietta. Persa tra mille pensieri, nonostante il pesante sonno che mi abbracciava calorosamente, vidi che lo sportello del veicolo si spalancò. Il cuore mi batteva all'impazzata, quasi scoppiava. Attesi con tutta l'ansia e la paura che avevo l'uscita di quell'individuo che pilotava il camion. Passò del tempo, ma non scese nessuno. Così mi avvicinai con leggerezza, calpestando il terreno umido, molto lentamente. Impugnai l'ascia più forte che potevo. Arrivata allo sportello anteriore, feci un grande passo svelto e spostai lo sportello arrugginito. Quando vidi cosa c'era dentro il camion, si sentii un grido acuto e terrorizzato, che rimbombó per tutto il vicolo. Quel grido era il mio.