8. Chirone

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Fisso il muro di cemento cercando di non far caso al ticchettare snervante dell'orologio da parete proprio sopra la mia testa. Le sedie di metallo grigio davanti a me, identiche a quella su cui sono seduto sono tutte vuote. Mi alzo con uno sbuffo e con tre passi attraverso il corridoio e mi appoggio al muro, fissando l'orologio grigio e lucente. Noto che copre una crepa, che esce per qualche millimetro dalla sua ombra. Sorrido, sandonico: ah, questa mania di nascondere sempre le imperfezioni. Il mondo deve essere perfetto, le crepe vanno nascoste o riempite, le macchie cancellate, le stranezze ridimensionate. Le persone si devono vestire bene, devono apparire.
Mi chiedo come sarebbe se al posto dei corpi potessimo vedere solo le anime delle persone. Ma forse è meglio non saperlo.
All'improvviso la porta alla mia sinistra si apre, lasciando uscire un'uomo sulla cinquantina seduto su una sedia a rotelle. Ha i capelli e la barba castani, con qualche accenno di grigio; indossa una giacca di tweed ed ha un plaid sulle ginocchia. Ispeziona il corridoio con lo sguardo, che alla fine si ferma su di me. "Percy Jackson?" Mi chiede. Io annuisco e mi stacco dal muro, mentre lui mi fa strada dentro la stanza, indicandomi di sedermi su una delle poltrone di pelle rovinata di fronte ad una scrivania di finto legno. Chiude la porta lentamente e poi mi raggiunge mentre mi siedo sulla poltrona a destra, proprio sul bordo, pronto ad alzarmi e ad andarmene in caso le cose si facciano troppo serie.
"Ciao, Percy. Io sono il tuo psicologo. Puoi chiamarmi Chirone" Mi scappa una mezza risata, quando sento il suo nome. "Come l'allenatore dei semidei?" Chiedo.
Gli occhi di Chirone si illuminano al sentire la mia frase. Un sorriso ironico fa capolino tra la barba folta. "Esattamente. Ma non siamo qui per parlare di me. I tuoi medici mi hanno spiegato la tua situazione" sbuffo, alzando gli occhi al cielo: i dottori credono sempre di sapere tutto, ma in realtà non sanno un cazzo. "Almeno a grandi linee." Continua lui "Ma vorrei sentire il tuo parere. Prima di tutto, sai perchè sei qui?"
Abbasso lo sguardo sul bracciolo della poltrona, studiandone la pelle rovinata. Alcune immagini mi tornano in mente, strizzo gli occhi e cerco di scacciarle mentre torno a guardare lo psicologo. "Va bene, capisco che tu non ti fidi ancora di me. Per oggi parlerò io, va bene?" Sospira "So che ti hanno diagnosticato il cancro due anni fa e che ti tengono qui da un anno e qualche mese perchè tendi ad avere crisi frequenti. So anche che non stai rispondendo positivamente alle cure." Alza gli occhi dalla mia scheda su cui sta leggendo, come se si aspettasse un qualche tipo di reazione da parte mia. "Può anche dirlo, Chirone: sto morendo. Lo so benissimo."
L'uomo abbassa lo sguardo, tornando al suo foglio.
"Cosa le è successo?" Chiedo. "Alle gambe?"
Lui ridacchia, abbastando lo sguardo sulla coperta prima di posarci sopra una mano. "Forse un giorno te lo dirò." Risponde.
"Comunque, non siamo qui per parlare di me. I tuoi medici hanno consigliato-" "consigliato?" "Va bene, ti hanno obbligato a queste sedute, in seguito a quello che è successo con quell'altro paziente, Nico Di Angelo." Serro le palpebre a quel nome, mentre un'ondata di nausea mi assale. Sono passate tre settimane, in cui non sono più riuscito a dormire, nè ho parlato con nessuno al di fuori di Grover, a cui comunque non ho raccontato cos'è successo. Ho ancora in mente gli occhi spettrali di Nico piantati nei miei. Guardo fuori dalla piccola finestra alle spalle del dottore, strofinandomi gli occhi stanchi e circondati da occhiaie che ormai si avvicinano più al bluastro che al viola.
"Come sta?" Chiedo.
"Nico? Lo tengono ancora sotto osservazione, ma di più non posso dirti, mi dispiace."
All'improvviso, la voglia di vedere se sta bene mi assale. Non importa che tre settimane fa mi abbia terrorizzato al punto da non riuscire a muovermi, o che mi abbia fatto perdere il sonno, non importa nemmeno che ora dovrei restare su questa sedia per almeno un'ora prima di potermi alzare e andarmene: importa solo sapere come sta.
Mi alzo in fretta e mi dirigo verso la porta, convinto che Chirone mi richiami indietro o che provi a fare qualcosa per fermarmi; invece sento solo un "Arrivederci signor Jackson." Prima che la porta si richiuda di colpo. Sorrido tra me e me mentre mi dirigo al reparto psichiatrico: tornerò a fargli visita.
☆☆☆
Nico è dall'altra parte del vetro, sdraiato su un letto identico al mio.
Sta dormendo.
Entro nella stanza con esitazione: non voglio svegliarlo e non voglio guardare ancora una volta quegli occhi. Prendo la sedia di plastica dall'angolo della stanza, attento a non far rumore e la metto di fianco al suo letto, per poi sedermici. Le coperte gli arrivano fino alla vita, lasciandogli fuori le braccia che però sono come al solito coperte dalla felpa nera ed enorme. Il suo viso mi sembra un po'più colorito del solito, ma non ne sono sicuro: è come cercare di capire se un foglio di carta ha una sfumatura più scura in un angolo o se è solo un'ombra.
Quando dorme sembra quasi un bambino: il suo viso è disteso e le labbra sono socchiuse. Aggrotto le sopracciglia quando noto un sottile tubicino trasparente che va dalla sacca appesa di fianco a lui, dalla parte opposta a quella in cui mi trovo, alla sua felpa, infilandosi sotto alla stoffa come un serpente. È sedato.
Un improvviso moto di paura mista ad indignazione mi assale: lo tengono sedato, perchè? È forse troppo agitato, "pericoloso"? Forse se si svegliasse, non sarebbe più il ragazzo che ho conosciuto. Magari, se si svegliasse, riprenderemmo la scena delle scale da dove l'abbiamo interrotta. Devo ammetterlo, una parte di me è contenta che non possa svegliarsi, per ora. Ma l'altra, quella che si è già affezionata a questo ragazzino troppo magro e troppo triste, è indignata: non è mai bello svegliarsi dopo quelli che ti sembrano minuti e scoprire che invece sono giorni. Ti fa sentire escluso dal mondo, lasciato indietro. Ti fa sentire debole e a me non è mai piaciuto. Se dormi non ti puoi difendere. Se dormi non puoi vedere nè sentire, se dormi sei in balia degli altri, e io non mi fido più degli altri.
☆☆☆
Credo di essermi addormentato.
Prima stavo guardando il viso di Nico, e poi all'improvviso è diventato faticoso tenere aperte le palpebre, così faticoso...
Mi sveglia una signora che sembra una nonna: porta un camice da infermiera, i capelli bianchi, raccolti in una crocchia morbida sulla nuca e un paio di occhiali da vista di quelli tondi e grossi che si usavano anni fa.
"Tesoro, sei stato qui dentro due ore, non ti abbiamo disturbato ma ora dovremmo davvero togliere la flebo a Nico. Si sveglierà tra poco, vuoi rimanere?" Mi informa, guardandomi con fare materno: è questo che mi piace delle infermiere: ne hanno viste talmente tante, talmente brutte, che ormai non le stupisce più nulla.
"Vuoi rimanere?"
Mi alzo e indietretreggio di qualche passo: no. Non voglio. Non voglio vedere il suo viso di nuovo corrucciato ed in preda ad un dolore che nessuno può capire perchè è tutto nella sua testa. "No, grazie, passerò un'altra volta." Rispondo con un sorriso forzato. Lei annuisce e solleva la manica della felpa di Nico per togliergli la flebo; è in quel momento che vedo per la prima volta la pelle del suo braccio. Resto congelato sul posto mentre sotto luce bianca della lampada si mette in mostra uno dei suoi tanti segreti: cicatrici.
Tante e spesse, una sopra l'altra, crudeli e frastagliate, orribili. Una fasciatura sporca di sangue gli ricopre il polso mentre alcune strisce rosse e rosa segnano quelle più recenti. Sono larghe e fanno impressione, non riesco a trovare un solo punto che non ne sia ricoperto, il suo braccio è completamente rovinato. Mi sblocco all'improvviso, travolto dalla nausea, mi volto e corro, corro più che posso che le gambe che urlano e il petto che brucia perchè, hey, ho sempre il cancro e c'è sempre quella simpaticissima cosetta chiamata fatigue. Arrivo nella mia stanza, fortunatamente vuota, e mi chiudo in bagno. Mi butto in ginocchio e vomito, rigetto tutto quello che ho nello stomaco e piango, piango per me, per Nico, perchè non è giusto e perchè non ne posso più.

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