MARTINA'S POINT OF VIEW.
Indosso l'ormai abituale camice da ospedale. Di un tessuto ruvido che chiamano cotone, ma che non si avvicina ad esso nemmeno lontanamente; nemmeno tentando con tutta me stessa a immaginarlo come tale ci sarei riuscita. Più che altro sembra più come indossare un sacco della spazzatura. Plastica spacciata per cotone.
La stanza in cui mi hanno messa è adiacente al laboratorio della risonanza magnetica. Odora di disinfettante, come qualsiasi altra cosa in quell'ospedale. Persino le infermiere ne sono impregnate. È fastidioso, fa lacrimare gli occhi e bruciare le narici, un po' come l'insetticida, o il diserbante. Solo che è quasi peggio, perché dopo qualche minuto smetti di sentire.
Qualsiasi odore viene annullato da una patina bianca, o forse incolore.
Fatto sta che il disinfettante annulla tutto.
Odori, sapori. Sentimenti.
Sento il chiacchiericcio insopportabile delle infermiere, che mi girano intorno come avvoltoi con una carcassa. Paragone cattivo, penserete. Non credo proprio. Dal mio punto di vista, mi reputo anche fin troppo simpatica a definirle così. Sono almeno in tre, inodori come tutto il resto. Incolori come sempre, solo deboli ombre grigio fumo nell'oscurità più totale.
Sento il dottor Harrison impartire gli ultimi ordini ai tecnici della risonanza. Probabile che mi stiano guardando con la compassione negli occhi, con la pena impressa a fuoco nelle iridi. Probabile che il mio medico li sgridi per l'ennesima volta, una volta finito tutto. Probabile che non me ne importi, in fondo.
Faccio un respiro profondo, cercando di isolare tutto il resto con l'unico odore non neutralizzato che ancora riesce ad invadermi le narici. Tabacco, fumo di sigaretta. Liquirizia, dopobarba alla menta. Sento la traccia di un pollice leggermente ruvido sfiorarmi la mano tracciando tanti piccoli cerchietti immaginari, la presa forte contro le mie dita.
«Non me ne vado, qualsiasi cosa succeda».
Il suo sussurro mi arriva alle orecchie attutito, ovattato. Come se invece di essere a pochi centimetri dal mio orecchio fosse altrove, troppo lontano per sentirlo. La sua presa su di me invece rimane forte, si intensifica non appena mi lascio andare al fantasma di un sospiro, fin troppo debole per provare a sembrare tale. Intreccia le dita con le mie e mi lascia un bacio sulla mandibola che tengo contratta da quando mi hanno infilato quel dannato camice.
Annuisco, provando a rilassarmi. Forse invano, a giudicare dal sorriso di Jorge che mi brucia contro la pelle. Brucia, ma per fortuna mi distrae dal freddo del metallo contro il braccio libero, all'altezza dell'incavo del gomito. Stringo la presa sulle sue dita, con un'infermiera accanto che mi dice come sempre che andrà tutto bene e che non sentirò nulla.
Ho la pelle tanto sensibile che sentire nulla è praticamente impossibile.
Mi giro verso Jorge, nascondendo il viso contro la sua spalla. Gli occhi chiusi anche se non vedo niente. I denti a mordere il labbro inferiore, mentre la punta dell'ago mi penetra la carne come un coltello col burro.
E per quanto io ci sia abituata, il bruciore dell'ago sulla pelle e nella vena non cambierà mai. Sarà sempre come se mi stessero violando contro il mio consenso. Avrò sempre paura che l'infermiera di turno sbagli e mi rompa una vena, o che mi dissanguino, o qualsiasi altra cosa.
Sento la paura svanire con la presa del ragazzo accanto a me che si stringe attorno alle mie dita. Sento il suo mento posato sulla mia testa, mentre mormora che è tutto apposto, che andrà tutto bene. Sento che ci crede poco o niente, alle sue stesse parole. Ma sento che sta facendo di tutto per farmi passare la paura e l'ansia e tutto il resto. Sento che ci sta provando con tutto sé stesso, anche se probabilmente ha gli occhi chiusi come i miei e la mandibola contratta e la paura che gli scorre nelle vene col sangue.
Proprio come me, sta lottando per non crollare.
Anche se il dolore lo sento solo io.
«Ora sentirai una sensazione di freddo lungo il braccio».
La voce dell'infermiera mi arriva un po' attutita, come fosse a diversi metri da me. Come se non potessi sentirla davvero, non come vorrei. E la sento, la sensazione di freddo. Lungo il braccio, fino alla spalla. Come se mi stessero gelando il sangue nelle vene. Tanto freddo da farmi venire la pelle d'oca fino al collo. Tanto freddo da sentire il bisogno di stringere la mano di Jorge fino a farmi male. Tanto freddo da sentire il respiro mancare e il cuore perdere un battito.
Prendo un respiro profondo, prima che le dita del mio ragazzo si stacchino pianissimo dalle mie. «Mi stanno cacciando via, piccola... ci vediamo fuori, okay?». Sento solo il dolore nella sua voce, come se in qualche modo non volesse staccarsi da me, non volesse lasciarmi da sola. Ed è devastante, sapere che lui stia male per me. Certo, da un lato è bello sapere che ci tiene... dall'altro, è come se venissi trafitta da tante lame quante ne bastano per sopravvivere a stento.
«Okay... Jorge?». In qualche modo riesco a chiamarlo con un filo di voce, prima che lo facciano uscire. Lo sento voltarsi, e il suo profumo sconfigge ancora una volta il disinfettante, arrivandomi addosso. Lo sento sorridere appena; un sorriso che fa rumore quanto un grido lanciato nel buio, quanto un ti amo sussurrato e portato a spasso dal debole vento di aprile. Non siamo ad aprile, però. E il ti amo che riesco a mimare con le labbra fa meno rumore di quanto riesca ad immaginare, sperando che però riesca comunque a smuovere le montagne, il velo di disinfettante, e i sentimenti.
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Blind Love || Jortini||
RomanceMartina, 20 anni. Jorge, 22 anni. Lei, cieca. Lui, grande osservatore. Lei gli insegnerà ad ascoltare. Lui le insegnerà a vedere. E insieme impareranno ad amare.