32.EPILOGO

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Aurora.

«E Peter che fine ha fatto?».
La voce un po' squillante di Giulio - mio fratello minore - mi da la forza di incrociare di nuovo lo sguardo troppo simile al mio della donna che ci ha raccontato tutta la storia, distogliendolo quindi dall'enorme album di foto dalla vecchia copertina di pelle che tengo aperto sulle ginocchia. Giulio ha posto a nostra nonna proprio la domanda che avrei voluto farle io, una volta assimilata tutta quella marea di informazioni della quale ci ha caricato, un po' per noia e un po' per curiosità.
Mi scappa un sorriso, mentre scompiglio i capelli neri di quella peste che ho per fratello, facendolo sbuffare e facendo quasi inspiegabilmente ridere la signora anziana seduta su quella sedia a dondolo di vimini che potrebbe benissimo avere la sua età, senza problemi. Io sorrido per il suo sguardo ancora così celeste da far impallidire chiunque e lei ride per il mio gesto, per lo sbuffo di mio fratello, per il ricordo che ha lei di quel gesto, di quella reazione.
E Giulio inizia a spazientirsi, vuole una risposta, vuole che qualcuno colmi quella curiosità perché, insomma, che fine ha fatto Nathan? Lo osservo qualche istante, trovando piuttosto imbarazzante la somiglianza con le vecchie fotografie di nostro nonno; gli stessi capelli neri, lo stesso odio nei confronti di chiunque quando glieli si scompiglia, lo stesso naso, le stesse orecchie piccole e gli stessi - identici - occhi un po' verdi e un po' no. Mi mordo un labbro, passandomi poi una mano tra i capelli che sono l'opposto di quelli di mio fratello e aspettando con lui una risposta che non tarda molto ad arrivare.
Una decina di secondi, e posso vedere le labbra circondate di piccole rughe di nostra nonna stirarsi nell'ombra di un sorriso forse un po' triste, mentre con le dita prende a giocare con la punta della lunga treccia di capelli bianchi che le arriva in vita. «Peter ha imparato a farsi imparare da Macarena, quando tutti si aspettavano che facesse qualche sciocchezza delle sue e rovinasse tutto di nuovo... sono persino venuti al mio matrimonio col nonno. Ci deve essere nelle foto, Rori».
Torno indietro di parecchie pagine, fermandosi sulla figura di una giovane donna dai corti capelli castano chiaro in abito da sposa, sorridente e mano nella mano con due ragazze della stessa età, somiglianti alla lontana, una coi capelli rosso porpora e gli occhi castani e l'altra coi capelli tinti di nero e gli occhi marroni ma che nelle foto sembrano azzurri. Candelaria e Macarena, amicizie inaspettate ma mai più abbandonate una volta instaurate.
Sposto lo sguardo sulla foto accanto, in cui il sorriso di Macarena nello stesso corto abito blu della foto precedente si riflette nel sorriso dell'uomo che le posa dolcemente un bacio sulla tempia, rischiando di rovinarle l'acconciatura - anche se a giudicare dai loro sorrisi è l'ultima cosa di cui gli importa. Peter sorride quanto Macarena, in quella foto, e io sorrido soddisfatta, perché nonostante tutto non è mai stato così cattivo come si sarebbe potuto pensare all'inizio di quella lunga storia.
Torno alla foto con Candelaria, trattenendo a stento una risata.
«Era incinta».
E nonna Martina scoppia a ridere con me, mentre il piccolo Giulio scivola giù dal dondolo di plastica bianca e corre di nuovo in spiaggia, pronto a rituffarsi tra le onde e a imbrattarsi di nuovo di granelli di sabbia e di salsedine. Lo guardo per qualche secondo, prima di rincontrare lo sguardo obliquo di quella donna che ammiro così tanto dopo quello che ci ha raccontato, che credo davvero che un libro non basterebbe per descrivere la stima e l'ammirazione che provo per lei.
«Candelaria era incinta... è incinta praticamente in ogni cerimonia catturata da quell'album, se ci fai caso», mi dice divertita, portandosi poi la tazza di tè verde alle labbra per prendere un sorso. Si sistema il cappello di paglia sulla testa, prendendo un secondo sorso e sorridendomi da dietro la tazza, lisciando poi le pieghe inesistenti del lungo vestito color carta da zucchero che indossa. «Candelaria e Ruggero hanno avuto quattro figli, Aurora», mi spiega, mostrandomi una mano mentre li conta sulle dita, forse per non dimenticare nessuno, o forse solo per rendere tutto più teatrale e divertente. «Il primo per il mio matrimonio, il secondo per il battesimo di tuo padre e di zia Soraya, il terzo per il terzo compleanno di Chris e Yaya e il quarto ... non ricordo a quale cerimonia, ma Candelaria rideva alzando gli occhi al cielo e Ruggero si limitava a sorridere sornione come se volesse far notare a tutti quanto fosse dotato».
Ridacchio, giocando con una ciocca di capelli biondi al sentire i diminutivi di mio padre e di mia zia, la quale per inciso odia che la si chiami Yaya, anche se ancora non ne ho capito il motivo. Forse solo per stizza nei confronti di nonno, che poteva anche scegliere meno assurdo per la sua prima - ed unica - figlia.
«Posso...?».
«Chiedi quello che vuoi, piccola».
«Gli altri?».
E mi racconta serenamente di Candelaria, Ruggero e della loro gigantesca e rumorosa famiglia. Mi dice del salone da parrucchiera aperto da Candelaria, della laurea in architettura di Ruggero - presa senza nemmeno troppi sforzi -, della loro stramba convivenza, dei litigi, delle paci fatte senza nemmeno stare a pensarci troppo, della proposta di matrimonio al contrario - dalla rossa al castano non più tanto castano. Mi dice dei loro figli, della loro villa immersa nella campagna scozzese, delle telefonate che ancora le tengono impegnate per ore, nonostante il mal di schiena perenne e le rughe intorno agli occhi e i capelli di Candelaria che ormai non sono più tinti di rosso da anni.
Mi racconta di Macarena e Peter e dei loro viaggi intorno al mondo senza praticamente fermarsi mai se non il tempo necessario perché la mora potesse spedire una cartolina a nonno, coi saluti dal Brasile, dall'India o da chissà dove. Mi dice delle scuse dell'eterno ragazzo cattivo alle famiglie lese da quell'incidente causato da lui solo in parte ma del quale si è sempre voluto prendere tutte le colpe e anche di più. Mi dice di come Macarena lo tenesse sempre per mano, anche senza un anello a legarli; mi dice della gravidanza inaspettata di come i capelli della mora siano tornati biondi a mano a mano che il tempo passava inesorabile e di come Peter abbia ammesso di amarla ma senza mai chiederle di sposarlo, perché loro hanno sempre funzionato al contrario e perché Macarena non ha mai preteso nulla.
Mi racconta con un sorriso leggermente amaro di come Facundo e Lodovica si siano lasciati qualche mese dopo l'intervento che le ha fatto recuperare la vista. La vedo fare un gesto piuttosto vago con la mano, nel sorvolare sul motivo della loro rottura e nel raccontare in breve come il suo migliore amico sia andato avanti anche se a stento con la propria vita, mentre la castana si laureava in qualsiasi di particolare che lei dal canto proprio non ricorda, perché in fondo non le è mai interessato.
Mi racconta di Mercedes e Xabiani, esalando un sospiro e passandosi stancamente una mano tra i capelli bianchi. Mi spiega di quanto si siano amati e fatti male, un giorno dopo l'altro, o di come lei abbia dovuto abbracciare forte l'uno o l'altra a seconda di chi usciva ridotto peggio dal litigio di turno. Litigi stupidi, giovani stupidi condannati ad amarsi troppo - o troppo poco - e destinati più ad urlarsi contro che a baciarsi fino a perdere il fiato. «Ci sono stati momenti in cui avrei davvero voluto chiuderli in una stanza a sbollire la rabbia... quasi quanto avrei voluto incatenare Mercedes quando ha fatto le valigie ed è sparita senza nemmeno lasciare due righe per chi amava...».
La voce è più alta di parola in parola. La vena sul collo che le si gonfia per la rabbia.
Si ferma all'improvviso, travolta da un colpo di tosse che la scuote come la terra durante un terremoto, con la tazza di tè verde che quasi le cade sul pavimento e io che semplicemente non ho idea di cosa fare. Non quando i colpi di tosse aumentano; ma per fortuna vedo con la coda dell'occhio zia Soraya accorrere trafelata, toglierle delicatamente la tazza di mano e darle una serie di pacche leggere sulla schiena, sussurrandole di respirare a fondo e di calmarsi.
«Calma, mamma... Mercedes non se la merita, la tua rabbia».
«Certo che non se la merita».
La voce di mio nonno è roca come al solito, forse un po' distorta dalla rabbia e della preoccupazione. La solita voce di sempre, quella che tante volte mi ha fatta addormentare cantando qualche canzone di quelle che li hanno accompagnati nella loro vita insieme e nel loro amore. Il solito fino di barba sulle guance, sempre più grigia di anno in anno. I soliti capelli tenuti corti, grigi come la barba. E la solita scia di inchiostro scolorito che gli ricopre le braccia, visibile attraverso la leggerissima camicia di lino che indossa.
E lo osservo sostituire la mano di mia zia con la propria nascondendo un sorriso, quando nonna Martina torna a respirare normalmente e accenna addirittura un sorriso tirato. Come se, anche dopo cinquant'anni, l'unico a riuscire a calmarla sia Jorge. Come se la sua mano sulla schiena sia la sua bombola d'ossigeno personale, che le da tutta l'aria di cui ha bisogno per continuare a vivere.
Perché Martina non è solo sopravvissuta. Con Jorge, lei ha sempre vissuto, vissuto davvero.
«Posso andare avanti con la storia senza che vi preoccupiate?».
Ridacchio, facendo posto a nonno sul dondolo e lasciando che mi cinga le spalle con un braccio, lasciandomi poi un bacio sui capelli sotto lo sguardo divertito di nonna. Perché io sono la sua copia in miniatura, e siamo tutti consapevoli di come io sia diventata in fretta la nipote preferita di nonno Jorge. Ridacchio, forse arrossendo un po' per via di quelle attenzioni non richieste.
Ridacchio, sentendo poi nonna ricominciare a parlare di Mercedes e Xabiani con più serenità, almeno finché non mi viene in mente una persona... personaggio secondario ma non inutile, ragazzo moro con la chitarra tra le mani, ragazzo che sembra essere fatto apposta per interrompere primi baci e far ridere le persone solo scoppiando a ridere lui stesso.
«Ma... Diego?».
Gli occhi di nonna Martina si illuminano all'improvviso di un marrone molto lucente prima che batta divertita le mani e nonno accanto a me scoppi a ridere e una sua mano nodosa mi stringa un ginocchio scuotendo la testa. Come a dire che quella domanda proprio non avrei dovuto farla. Alzo gli occhi al cielo, tornando a rivolgere la mia attenzione su quella donna alla quale somiglio tanto in tutto, e che conosco solo ora in ogni minima sfaccettatura.
Mi racconta di Diego e dei suoi capelli neri, e come per un breve periodo se li tinse di biondo. Dei suoi occhi scuri penetranti che sembravano poter brillare solo per la musica, ma che quando hanno visto per la prima volta una ragazza coi capelli chiari e gli occhi verdi come quelli di nonno Jorge, hanno brillato solo per lei. Mi racconta di Clara, la ragazza argentina con la passione per il violino, e di come quei due abbiano passato nottate intere nel negozio del moro anche solo a ridere, suonare e mangiare caramelle gommose - lui solo quelle verdi e lei solo quelle rosse, nessuno ne ha mai capito il motivo.
Mi racconta di quanto ci abbiano messo quei due a capire di essere fatti l'uno per l'altra, tra archetti consumati, plettri distrutti per la frustrazione e sacchetti di caramelle gommose lasciati incustoditi su una pila di vecchi dischi per attaccare le labbra e non lasciarle più andare. Mi racconta di come siano spariti al loro matrimonio, per poi ricomparire; Diego con una macchina di rossetto sul colletto della camicia e Clara con l'orlo del vestito turchese strappato dalla foga con cui evidentemente il moro l'aveva sollevato.
Scoppio a ridere, coprendomi il viso con le mani per nascondere il rossore e l'imbarazzo, perché - okay che ho sedici anni e una cugina di venti che racconta le proprie esperienze sessuali come leggesse la lista della spesa - la timidezza l'ho certamente ereditata da qualcuno. Qualcuno che mentre arrossisco gioca con una ciocca di capelli bianchi sfuggita alla treccia e guarda con un mezzo sorriso - malizioso? - l'uomo al mio fianco.
«Ha trovato anche lui il proprio raggio di sole», dice con dolcezza distogliendo lo sguardo da me per guardare la moglie.
Vedo la nonna arrossire, per poi alzare gli occhi al cielo e fargli un gesto con la mano come a chiedergli di smetterla, facendomi sorridere e facendomi inevitabilmente brillare gli occhi, perché si amano ancora come fosse il primo giorno, e davvero non c'è niente di più bello da poter guardare.
«Qualche altra domanda, piccola?», mi chiede nonno sollevando le maniche della camicia di lino fino ai gomiti. Sulle braccia spiccano ancora - anche se sbiaditi dal tempo - i numerosi tatuaggi che hanno fatto innamorare nonna anche solo sfiorandolo, senza bisogno alcuno di vederlo. All'anulare, la fede in oro bianco scintilla, gemella di quella stretta al dito della moglie, che incrocia le caviglie aspettando che a me venga in mente qualcosa da poter chiedere.
E ci penso. Ci penso su.
Ripercorro tutta la storia dei miei nonni solo chiudendo gli occhi per qualche istante.
Rivedo la caduta nella metropolitana, il loro secondo incontro e lo scontro nel parco, fatto apposta solo per darsi una scusa soddisfacente per parlarsi. Rivedo una serra colma di rose e un vecchio negozio di musica che non esiste più, dove una band che nessuno ricorda più ha fatto da colonna sonora al ragazzo dalle braccia ricoperte di inchiostro e alla ragazza castana con alcune ciocche bionde dagli occhi vuoti.
Rivivo il crollo di Martina con Jorge quando gli raccontò di Damien, la loro prima notte passata a dormire nello stesso letto e il loro primo risveglio; rivivo la visita in ospedale, la nascita di una piccola speranza che lei potesse tornare a vedere, la rassicurazione di Jorge quando fermò la macchina in autostrada e se la mise a cavalcioni stringendola a sé come a farsi passare almeno un briciolo di dolore, chiedendole poi di lasciare che provasse ad aggiustarla.
Anche se a mio parere non c'era nulla da aggiustare.
Rivivo il sussurro scivolato via dalle labbra di nonna, quell' "aggiustami" che se io fossi stata lì mi sarei messa a battere le mani eccitata, come stessi guardando uno di quei film romantici pieni di miele e di dolore che onestamente mi piacciono fin troppo. Rivivo il racconto di Candelaria e la reazione di Martina. Rivivo Peter e il destro allo zigomo di Jorge, rivivo Martina, il suo primo mal di testa sospetto e la sua delicatezza nel continuare a toccarlo anche se ferito.
Rivedo le lacrime di Jorge e la loro visita al cimitero. Immagino Alba.
Immagino i sentimenti di ognuno di loro, i mal di testa, le visite in ospedale, i ricoveri non voluti e la consapevolezza che l'incidente che tolse la vista a mia nonna fosse lo stesso che rubò la sorella a mio nonno. Immagino i primi ti amo. Immagino Macarena e Peter. Le corse in ospedale, le risse sventate, i giardini di notte con le farfalle che con le proprie ali fanno più rumore dei respiri degli amanti. Immagino i litigi, le paci, i baci, le prime volte. E rivedo altri ricoveri, i colori che tornano, le lacrime di tutti, la gioia di molti, la vista che torna in un paio di occhi rimasti vuoti per troppo tempo.
E li immagino fare l'amore come il sole si tuffa nel mare, capendo poi il significato sia del mio che del nome di mia cugina Eileen. Raggio di sole, lei. Prime luci del giorno, io. Capisco il senso riaprendo gli occhi e facendoli fondere ancora con quelli di mia nonna, che mi guarda, forse incuriosita dalle mie palpebre tenute chiuse così tanto e dal sorriso da completa idiota sulle mie labbra.
«Fate ancora l'amore come cinquant'anni fa?».
«Tutte le notti, ogni volta come fosse la prima...», mi risponde nonno, mentre nonna nasconde il viso dietro la tazza di tè, ancora. Vedo lo stesso le sue guance diventare un po' rosse e sento lo stesso la risata divertita dell'uomo al mio fianco anche se sono apparentemente concentrata su di lei.
E capisco un'altra cosa, spostando lo sguardo da uno all'altra.
Capisco di non volere l'amore narrato nei romanzi rosa né quello descritto nei film d'amore con tutte quelle scene ad alto contenuto di miele che io amo alla follia. Io voglio una persona come mio nonno lo è stata per mia nonna, nella mia vita. Voglio qualcuno che mi ami in tutto e per tutto, difetti e mancanze compresi. Voglio qualcuno che mi baci fino a farmi dimenticare tutto, che mi ascolti quando voglio parlare tutta la notte e che mi asciughi le lacrime con la punta delle dita, accennando un sorriso e promettendomi che qualunque cosa sia successa andrà bene, perché io avrò sempre lui.
Voglio qualcuno che sia come Jorge è stato per Martina.
Voglio qualcuno che sia la liquirizia della mia vita, come io sarei la vaniglia della sua.
Poso un bacio sulla fronte di ognuno e sussurro ad ognuno un ti voglio bene che sembra portato dalla leggera brezza che viene dal mare, che mi colpisce col forte odore di sabbia bagnata e salsedine, prima di lasciare le dita di nonna ed entrare nella villa, con la luce del tramonto che mi colpisce la schiena, mentre con la coda dell'occhio vedo i miei nonni sorridersi complici; sono la cosa più bella che abbia mai visto, e non smetterei mai di guardarli amarsi.

***

Sono passate ore, non so nemmeno quante. La scatola dei ricordi dei miei nonni è ancora aperta sul mio letto, e il vecchio cd testimone del loro primo bacio va a ripetizione nel vecchio lettore che ho trovato sempre nella scatola, tra mucchi di vecchie foto, inviti a matrimoni e cartoline da tutto il mondo. Canticchio Yellow, giocherellando con la penna che tengo in mano e rileggendo le ultime righe del mio diario.
Guarda le stelle, come dicono i Coldplay.
E lo faccio. Seduta sul davanzale, con la finestra lasciata aperta e la brezza estiva che mi scompiglia i capelli, guardo le stelle. Sono tante, a milioni. Mi ricordano i sorrisi di cui mi ha raccontato tanto la nonna oggi pomeriggio, ma anche le lacrime e le pagliuzze argentate nei suoi occhi, arrivate anche nei miei. Provo a contarle, tutte quelle stelle, provando a credere che in qualche strano modo stiano brillando proprio per me, come cinquant'anni fa brillavano per Jorge e soprattutto per Martina, anche se lei credeva di non poterle vedere mai più.
Distolgo lo sguardo arrivata a contare la centesima stella, brillante come tutte le altre o forse anche di più. Mi si chiudono gli occhi e sto decisamente perdendo il conto, quando la risata anziana ma ancora cristallina di nonna mi arriva alle orecchie. Distolgo lo sguardo dal cielo per posarlo sulla sabbia, sui rari cespugli che la colorano di quei fiori che si schiudono solo di notte, come nel giardino delle farfalle dei ricordi dei miei nonni.
E anche al buio le vedo, le loro mani intrecciate.
Lo vedo anche al buio, Jorge che trascina Martina nella sabbia, più lentamente di come avrà sicuramente fatto un tempo, ma con la stessa allegria e soprattutto con lo stesso amore. La vedo anche al buio, nonna, con la vestaglia che sventola per la brezza e la lunga treccia di capelli bianchi posata sulla spalla destra. Li vedo anche nel buio, mentre si stringono e si sussurrano qualcosa che da quassù io non posso nemmeno sognare di sentire, nonostante l'orecchio teso per la curiosità. Li vedo, i loro sorrisi e le loro mani ancora intrecciate. Le sento, le loro risate che volano libere nel vento.
Ho l'onore di vederli innamorarsi solo guardandosi negli occhi, dal castano al celeste, come forse era destino che facessero tutta la vita. Ho l'onore di vederli trovare il proprio amore fermi dove sono, col naso all'insù e le dita che continuano a cercarsi come se fossero state create per non lasciarsi mai.
Li vedo fermarsi a guardare le stelle, col capo di nonna posato delicatamente sulla spalla di nonno. Li immagino respirarsi come facevano una volta e come fanno ancora, anche se sono passati tanti anni, le mani fanno male per l'artrosi e nonno non può più uscire col giacchetto di pelle in pieno inverno. E li immagino meravigliarsi l'un l'altra, sentendo ancora gli stessi odori nelle narici.
Respirando liquirizia, lei. E vaniglia, lui.

-FINE.

Blind Love || Jortini||Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora