Il pianista

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Lavorare su una nave da crociera permetteva di vedere un'incredibile varietà di persone: l'uomo sulla cinquantina che poteva permettersi la compagna di vent'anni più giovane, la coppia di anziani che non sapeva cosa fare a casa, tutta sola con i figli ormai grandi che avevano intrapreso le loro strade, la famigliola felice con un paio di marmocchi al seguito e poi i suoi occhi si erano posati su di lei. Era una bellezza particolare, quasi inusuale. Aveva i capelli neri, gli occhi grandi ed espressivi, la linea della bocca fine e labbra invitanti. Non si poteva dire che fosse magra, né giusta, forse un po' abbondante, con la morbidezza delle rotondità che rendevano quel corpo così attraente e piacevole da guardare. Perennemente seduta sulla stessa poltrona, teneva sempre lo sguardo abbassato sul suo libro. Solo ogni tanto alzava gli occhi e li puntava su di lui, colpita dal pezzo che stava suonando e lui con prontezza le sorrideva e lei ricambiava e quella piccola curva delle labbra lo spronava a pigiare i tasti del pianoforte ancora meglio.

Poi quando gli si era avvicinato con timidezza per richiedere un pezzo era stata l'estasi e non seppe descrivere la vergogna che provò l'istante immediatamente successivo nel non conoscere ciò che lei gli richiedeva. Ma doveva accontentarla, o non avrebbe dormito se non fosse riuscito a modificare quella velatura di delusione che già aveva fatto la sua comparsa nei suoi occhioni da cerbiatta. Si stava già voltando per tornare compostamente al suo posto, ma lui non le permise di andarsene, fosse stata l'ultima cosa che faceva, ma avrebbe suonato per lei ciò che voleva lei.
-Se potessi ascoltarla potrei suonargliela- blaterò ottenendo la sua attenzione.
Lei lo fissò con i suoi occhi marroni che lo facevano sentire come punto da migliaia di aghi. -Dovrei averla sul cellulare- osservò mentre iniziava la sua ricerca. Poi gli passò il dispositivo e lui tentò di memorizzare il più possibile il brano, poi annuì sorridendole e le restituì il telefono. Aspettò che si fosse accomodata, iniziò a suonare e lei si concentrò di nuovo sulla lettura. Ogni tanto lo guardava incantata ed ecco, quando terminò, il suo sorriso di apprezzamento.

Tutte le sere si sedeva nella stessa poltrona, sorseggiando un punch che teneva stretto tra le mani per scaldarsele. Ci metteva molto zucchero, aveva notato, cinque o sei bustine tra zucchero normale, di canna e dolcificante, anche se non capiva con che criterio scegliesse l'uno piuttosto che l'altro. Era evidente che lui non l'aveva colpita come lei aveva colpito lui. Era lì solo per il luogo calmo, la musica che suonava, l'atmosfera elegante a cui dava una frizzante scossa presentandosi con una maglietta nera dei Ramones, una felpa grigia in cui ci stava due o tre volte, dei jeans scoloriti e delle sneakers sdrucite. questo però solo nelle ore diurne, di sera indossava abiti e gonne lunghi fino a terra che le attribuivano una grazia e una finezza che non aveva mai visto in nessuna donna. Questo dualismo lo esaltava e lo incuriosiva. Però lei era lì solo per la musica, non per lui e per questo la odiò. Voleva le sue attenzione e provava a ottenerla suonando pezzi sempre più complessi e ogni tanto ne usciva vincitore: alzava lo sguardo e lo puntava su di lui. Poi provò a ottenere il viso di lei sollevato e ammaliato da lui suonando di nuovo il suo pezzo e, Dio, se ne fu scossa da quella dichiarazione palese seppur tacita. Le lanciava occhiate di sottecchi mentre suonava: dava uno sguardo fugace ai presenti e poi si soffermava su di lei.

Smetteva di suonare dopo l'una e mezza di notte e lei era lì impassibile, immobile, rapita dalla lettura. Quello probabilmente era il momento migliore per parlarle. Non c'erano sguardi indiscreti a osservare le sue intenzioni, era sola e avrebbe finalmente dovuto confrontarsi con lui. Le girò intorno e poi si avvicinò.
-Buonasera- iniziò insicuro.
Lei lo guardò sgomenta, non se l'aspettava minimamente, ma poi cercò di ridarsi un contegno. -Buonasera- ricambiò educatamente.
-Come si chiama il libro che sta leggendo? È interessante?- cercò di darsi un motivo per essere lì a parlarle e se avesse finto interesse per la sua lettura probabilmente avrebbe anche guadagnato qualche punto ai suoi occhi.
-Cent'anni di solitudine. Sì, è molto piacevole da leggere- dichiarò con un tono di voce lineare e sicuro, ma allo stesso tempo come miele.
-Le andrebbe di venire al ponte sedici a vedere le stelle con me?-
Lei diede uno sguardo fugace al suo libro allo stesso modo con cui un bambino già pieno di nostalgia guardava il giocattolo con cui si era svagato fino a quel momento perché la mamma gli aveva detto che era il momento di fare i compiti. -Credo ci sia troppo vento per uscire- evase da quella situazione per poter tornare al suo interesse.-
-Ci sono andato poco fa e hanno aperto- informò speranzoso.
-Va bene, andiamo allora- replicò sconfitta.
-Come ti chiami?- chiese. Avevano preso accordi per un appuntamento, ma non sapeva quale fosse il suo nome. Paradossale.
-Vienna.-
-È un bel nome- constatò lui.
-Se mi aspetti un attimo vado a posare il libro in cabina.-
In lui s'insinuò il terrore che una volta che si fosse allontanata, non sarebbe più tornata e a lei venne questa idea, di rifugiarsi in cabina fino al mattino successivo. Però quando la vide tornare sui suoi passi, tirò un sospiro sollievo. Aveva preso con sé la sua felpa smisurata, era stata previdente.
Salirono con l'ascensore a vetri fino al ponte sedici e appena uscirono furono colpiti da una folata di vento gelido. Fecero un paio di volte su e giù per il ponte e poi si fermarono di fronte a delle specie di sfere di plastica scavate all'interno per renderle confortevoli per sdraiarvisi e rilassarsi, in quello che doveva essere il tetto c'era un foro circolare. Vi si sdraiarono, uno accanto all'altra e si misero per davvero a guardare le stelle in silenzio. Lui si crogiolava dell'idea di esserle così vicino da sfiorarla e di essere inebriato dal suo profumo dolce e fruttato. Rimasero in silenzio per un tempo che a entrambi sembrò lunghissimo, per lui perché desiderava ancora sentirla parlare, mentre per lei perché stava congelando e voleva rientrare.

La riportò al suo ponte che era anche lo stesso in cui si trovava la sua fonte di sostentamento: il pianoforte. E provò a usarlo come mezzo di attrattiva e curiosità. -Mi piacerebbe suonare per te- proruppe quando era ormai palese che se ne sarebbe andata e sapeva che per quella sera non sarebbe più riuscito a trattenerla oltre, ma agognava di rivederla. Si fermò e lo guardò per un istante. -Domani verso le diciotto in teatro- proseguì velocemente.
-Dipende da che ora bisogna rientrare, però cercherò di esserci. Adesso devo andare, è stato un piacere.-
-Il piacere è stato mio. Buonanotte- e si azzardò a farle il baciamano. Non si ritrasse, ma dalla sua espressione trapelava stupore e un po' di disagio.

Il giorno successivo si trascinò lentamente, pareva che i secondi non trascorressero mai. Quando l'ora fatidica arrivò, si diresse silenziosamente verso il teatro. Molti ospiti, principalmente anziani, lo riconoscevano e gli scambiavano sorrisi. Il teatro deserto era intimidatorio, ma molto bello. Dieci minuti. Venti. Trenta. Niente, nessuno. Non un'anima era apparsa in quell'enorme spazio. Era seduto sullo sgabello di fronte al piano di cui suonava qualche tasto, per essere sicuro che quel silenzio fosse vero e non fosse improvvisamente diventato sordo. Si alzò e si apprestava a scendere dal palco quando arrivò, gli occhiali da sole che le fermavano i capelli, le gote arrossate dal sole e le felidi che le incorniciavano il viso. Le andò di fronte e le sorrise, la portò con sé, tenendole la mano, sul palco. Lui si sedette, mentre lei appoggiò le mani sulla vernice nera lucida del piano. Iniziò a suonare con dolcezza, quasi accarezzando i tasti, che erano una donna, erano lei. Lei che guardava assorta quella danza delle dita e ne rimaneva estasiata, era incredibile come delle semplici dita riuscissero a creare qualcosa di così bello. Non se l'aspettava, ma lei si mosse verso di lui e gli si mise in grembo rivolta verso lo strumento. Sentire quel corpo, quanto fosse vivo e piacevole da guardare. Poggiò i suoi palmi sui dorsi di lui. Estasi. E per una manciata di secondi continuò a suonare seguito da lei. Poi si fermò e fece scivolare le mani lungo i suoi formosi fianchi, carezzandoli e provocandole la pelle d'oca. Portò indietro la testa e l'adagiò sul suo petto coperto da una fresca camicia bianca. Le loro labbra combaciarono in un bacio asciutto, casto. Inalava il suo profumo pungente e acre di dopobarba. Si alzarono e andarono dietro le quinte tenendosi per mano, l'uno accompagnando l'altra. La spogliò lentamente. Prima la maglietta, soppesando con lo sguardo ciò che vedeva e facendole una carezza che iniziava dal collo, passando attraverso lo spazio tra i seni, ancora coperti dal reggiseno che fu lei a togliersi. Proseguì nel suo percorso fino ad arrivare all'ombelico e al bordo dei pantaloni. Lei aveva la testa chinata, guardava ciò che le sue mani facevano. Con l'indice sotto al mento, le alzò il capo e le catturò le labbra con le sue. Gli accarezzò il viso liscio, sbarbato e morbido.

Fecero sesso teneramente, talvolta guardandosi negli occhi, talvolta evitando gli sguardi. Quando entrambi furono soddisfatti, si rivestirono e per un tratto fecero la strada insieme, poi si separarono e addio per sempre. Il giorno dopo lei scese dalla nave e tornò alla sua vita senza nemmeno conoscere il suo nome, nome che seguiva quella persona che era tornata alla sua vita di pianista. E quello fu tutto.

Piangi per portare la pioggiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora