Chi trova un Amico trova un Tesoro

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Ma se la vita mi offre te,
vuol dire che mi son persa in una discarica

L'unica notizia buona di ieri? Mio padre, quel pezzo d'uomo sempre in giacca, cravatta e pelata, aveva preparato i pancakes, che però naturalmente non avevo minimamente toccato per colpa di quella seduta spiritica da quel preside simile ad un nano, in compagnia di un'arpia e le sue unghie, preziosamente infilate tra i miei capelli arruffati. Mio fratello, come bravo e rispettoso consanguineo come si deve, aveva passato un'ora della sua esistenza a togliermi quelle specie di forcine naturali dai capelli, e tutto un pomeriggio a scherzare sulla mia dannata sciagura subita in un tragico lunedì, in una mia personalissima "Apocalisse 14". Ma naturalmente, dopo quella serie di sfortunati eventi, non avevo ancora subito la furia dei miei genitori, che quando succedeva qualcosa si infiammavano molto più di me: stirare, fare il bucato e pulire il bagno. Questi erano i compiti che dovevo fare, in stile Cenerentola, per minimo tre settimane, con la pena della cucina sottratta solo per il timore delle mie capacità da piromane, e si aggiungevano a quelli che mi aveva dato il preside con tanto di compagnia di quella Tau porta sciagure.

E che dire della pace che avevo tanto protetto durante quel mese e mezzo con sangue e sudore?
L'avevo mandata al patibolo, in una missione suicida per distruggere nuovamente la Morte Nera.
Per cosa poi, un poster?
Sì, il poster valeva lo sforzo, sapendo soprattutto che era un'edizione limitata. Ma negavo a me stessa la mia reale reazione a quel grido di avviso, e sapevo, per quanto non lo volessi ricordare, che mi ero messa a correre di mia spontanea volontà, senza minimamente conoscere quell'ipotetica fine di quel mio oggetto sacro.
La mattina del giorno seguente, dopo una dormita profonda ed estremamente fondamentale, mi svegliai, e feci la mia solita routine che aveva occupato ogni mattina della mia settimana, con nuovamente il segno funesto del toast bruciato, e senza nemmeno badare all'orario, uscii di casa, dimenticando gli auricolari nella mia stanza. E già a quei piccoli segnali avrei dovuto chiudermi in camera per circa una settimana, ma naturalmente io la mattina sono su un mondo a parte.
Arrivata là al cancello, mentre gli schiamazzi mi facevano desiderare un machete tra le mani, nemmeno una piccolissima vista del Prof mi fu concessa, solo sguardi di persone che mi conoscevano per una fama da eroina "Nerd Sclerotica" intenti a bisbigliare leggende nate in meno di un giorno.
Diciamolo, la fantasia degli adolescenti per certi argomenti non ha confini, esclusa la mia mente da criceto in decomposizione che a malapena riusciva a decifrare quelle loro assurdità. C'è chi affermava che avevo lanciato i libri contro quella Tau, e chi, mentre rotolavamo a terra, aveva giurato vedermi mordere le sue braccia ormai sanguinanti con un occhio chiuso perché graffiato in precedenza. E infine, come era quasi fin scontato, c'era chi era riuscito a vedere, con quella sua mente perversa, un triangolo amoroso tra noi tre. Ma in tutte le leggende metropolitane, peggiori di quelle che i Jedi facevano per il Lato Oscuro, l'unica componente che non mancava ed era vera era la bellissima figura di merda in cui bisognava sommare unghie, capelli e una professoressa vecchia e decrepita che ci urlava di smetterci.
Naturalmente, quella mia felpa sarebbe passata alla storia, come anche quelle specie di fili spinati che avevo al posto della solita chioma fluente, ma la cosa a me non interessava. Mi dava fastidio il fatto che la scuola sapesse della mia esistenza. Io dovevo esser un piccolo granello di sabbia in quell'universo, e non una specie di buco nero che assorbiva i più grandi satelliti del Complesso.
Ma in quel momento, più che pensare al mio ideale di C.E.R.O. purtroppo mutato, avrei dovuto ricordarmi che durante la mia battaglia furiosa Alexander James e Tizio avevano assistito. Inoltre mi ero totalmente dimenticata di Kat, che sicuramente non sarebbe semplicemente stata in disparte dopo il mio sacrificio apparso quasi come un gesto di amicizia.
Cazzo, quello era amore: fottutissimo amore tra me e il mio armadietto, non era colpa mia se in mezzo c'erano quelle due.
Poi che dire dei professori? Ormai molti si ricordavano di me e della Tau per la nostra noncuranza nei confronti della vecchia megera di matematica, e molti ci avevano catalogate come rischi per le loro classi. Forse, in tutto quel male, almeno l'unico professore di cui mi interessava si era accorto della mia esistenza. Molto remotamente.
Ma per fortuna la mia fama non interessava a molti, solo a quelli pettegoli che amavano il gossip su persone relativamente famose, e quindi, nel passare per quei corridoi senza nemmeno il sostegno della musica, solo poche persone mi tiravano qualche frecciatina silenziosa con lo sguardo, che prontamente ignoravo come mio solito.
Eppure la classe quel giorno mi apparve più lontana del solito.
Primo piano, di fianco ai bagni e davanti alle macchinette maledette che non permettevano di uscire dalla classe all'intervallo, le sue finestre davano un bel vedere sul campo di atletica, dove per la precisione non si scorgeva mai un prof intento a svolgere il suo lavoro, ma solo un branco di zombie che tentavano di sopravvivere alle intemperie della natura. Ci voleva meno di un brano per arrivar lì, ma quel giorno imparai che servivano più di duecento passi, impiegati tra scalini e persone capaci di bloccare la strada meglio di un Gandalf con il suo bastone.
Meno di tre minuti per arrivare fin lì, ma non quella mattina. Ho già detto che la sfiga ha sempre qualcuno con cui andare a tormentare?
Cento ventottesimo passo, finiti gli scalini, e indovinate chi incontro proprio davanti quasi al mio naso?
Avevo due persone da evitare. Due. E una l'avevo incontrata quasi subito.
Maledetta sfiga pallida dalla chioma bionda, che mi fissava divertita con i suoi grandi occhi che presto sarebbero diventati vitrei e senza vita.
Rimanemmo lì, per pochi millesimi di secondo, a fissarci in un modo che solo noi due conoscevamo, e poi lo sorpassai, proprio nello stesso momento in cui lui aveva iniziato a scendere il primo scalino. Per una volta, la popolarità aveva fatto un qualcosa di positivo: la sua legge infatti afferma che una persona dotata di essa ha uno status Cerico maggiore, che potrebbe esser intaccato dagli scarti di questa scala sociale. Ergo, esser uno scarto della società Cerica era una delle cose che non volevo cambiare, soprattutto per tutti i privilegi di invisibilità che regalava.
Ma se lo avessi incontrato fuori da scuola, che avrei fatto?
Avrei potuto fare la strada davanti al campo di atletica, evitando così la via principale, ma esser una persona pigra ti impedisce anche solo di osare pensare un piano simile. Quindi la risposta era solo una: avrei fatto come al mio solito, ossia da ragazza mentalmente instabile. E comunque, le probabilità di incontrarlo erano sotto lo zero, conoscendo la sua attitudine nel farsi cacciare all'ultima ora dalla classe e la mia situazione da carcerata con una bionda di cui nemmeno conoscevo il nome.
Che poi, pensandoci, di quante persone non sapevo i nomi?
Troppe, se contiamo la generalità. Ventisei, se contiamo le persone che avrei dovuto conoscere realmente, zero di quelle di cui mi importava, anche se il nome di Tizio volevo davvero scoprirlo solo per poi minacciarlo. Sì, perché per colpa sua la mia classe aveva notato quell'ultimo banco nell'angolo dove si sviluppava per tutta la giornata la magia nera del Nerd, oltre che per il mio gesto frainteso. Nessuna persona sana di mente si metterebbe a guardare una che dorme con la testa appoggiata al suo stesso banco, ma quella "persona", che per mia fortuna non era del tutto famosa, lo aveva fatto, e aveva preso me come cavia da osservare. Ma manco al mio ipotetico fidanzato l'avrei permesso, figuriamoci ad un amico di quel Tacchino.
Ma questo naturalmente i miei compagni di banco non potevano capirlo, perché loro non sapevano chi io fossi. Quelle ventiquattro persone, o per lo meno tutte quelle che erano presenti nel momento del movente dell'omicidio, continuavano a guardarmi con una certa curiosità, mentre io appoggiavo la testa al muro e leggevo sul telefono qualche battuta per loro incomprensibile, senza mai spostarsi verso di me per chiedere una risposta che poi non avrebbero ottenuto. Per mia fortuna, la mancanza di coraggio era una virtù molto diffusa, che mi permise per le prime tre ore di sopravvivere alle materie proposte, con tanto di interrogazione di storia andata bene per un fortuito caso. Tranquillo fu anche l'intervallo, trascorso in bagno per non incontrare la seconda persona spiacevole, e le due ore successive capii perfino matematica e latino. Forse quel giorno non sarebbe stato male, o almeno era quello a cui stavo pensando, ma mancavano ancora l'uscita della scuola e la punizione con quella ragazza, entrambi eventi al quanto tragici.
Per una volta non sbagliai, per mia sciagura, e nessuna fisica dovette intervenire su quel sistema con le sue forze esterne. Al suono di quella splendida campanella, tutta la classe si svuotò in meno di due minuti, e io, ultima superstite con ancora in mano il grande libro di matematica, mi ero persa a guardare la lavagna e i suoi mille segni di quella pazza furiosa che aveva tentato di farmela pagare per l'umiliazione che le avevo inferto inconsapevolmente. Non mi ero accorta di nulla, nemmeno di quegli occhi nocciola, verdi e vitrei che mi guardavano in silenzio, quasi a capire cosa stessi per fare.
Ero immersa nel mio pensiero, cosa che in quei giorni era fin troppo normale, e la cosa onestamente non mi piaceva: pensare fa bene, ma andare in overdose di domande e dubbi no.
Ad un tratto, quando ormai avevo finito di scartavetrarmi i suddetti con quella stupida mente troppo funzionante, mi sentii sfiorare la spalla e quel mattone bianco mi sfuggì dalla mano, finendo a pennello sul mio piede e continuando quella serie di funesti segni di sciagura che quel giorno si stavano manifestando con estrema insistenza.
Mi misi a saltellare imprecando allegramente, naturalmente andando contro quella persona che mi aveva sfiorata e al banco, per la precisione infilzando nella mia gamba lo spigolo. Urlai, lodando con un carissimo "Porca Sfiga" che ormai avevo dismesso, e presa dai dolori lancinanti, mi appoggiai alla sedia sulla quale era appoggiata la cartella spalancata. Il risultato?
Una William sdraiata a terra, su un tappeto di libri e quaderni, con addosso una sedia e la mano puntata sulla gamba, mentre Kat mormorava balbettando tantissime scuse accompagnate dal sottofondo delle risate di James e Tizio.
Davvero, dovevo chiudermi in casa per una settimana, altro che uscire.
-Bel volo, Medusa- Mi rise in faccia Alexander, che, con il suo modo di fare burbero, si era seduto sul mio banco ed era affacciato verso di me, fissandomi con quei suoi occhi che o urlavano o si svuotavano come se nulla fosse. Quanto avrei desiderato spaccargli il naso per quel soprannome, ma la sedia che magicamente era sopra di me non lo permetteva. Potevo dirgli anche molte cattiverie, ma anche per quelle dovevo aspettare che fossimo soli, o con persone che sapevano del suo esser omosessuale, ritardato e in procinto di morte prematura.
- Vai a buttarti giù da un ponte, prima che ci pensi io- Ringhiai, agitando le mani a caso per liberarmi da quella trappola mortale e far avverare quella minaccia, e Calibro, vedendomi così in crisi, si abbassò verso di me e alzando un poco la sedia incastrata. Non mi lasciai sfuggire quell'opportunità e velocemente, non so come, riuscii a scivolare fuori da quell'angolino e da quel tappeto di libri ormai mezzi rovinati e piegati, fino a ritrovarmi seduta a terra di fianco alle gambe di quella ragazza, che erano semplicemente coperte da un paio di jeans.
- Chiedile scusa Alex, è colpa mia se è caduta-
Senza balbettare. Senza quella sua vocina troppo acuta e troppo mormorata. Cosa diavolo avevano fatto a quella ragazza, che con una voce semplice e normale era riuscita a dire una cosa così a una persona come lui senza esser balbuziente?
- Se è per questo, è sempre colpa tua se ora le tocca passare la punizione con quella - Continuò Tizio, che si era proprio piazzato di fianco al suo caro amichetto del piffero a osservarci come se fossimo povere plebee incomprese. Li avrei presi a calci, se non fosse stato che per quel giorno avevo già avuto abbastanza disgrazie e non volevo finire nuovamente a stringer amicizia con i pavimenti di quell'istituto. Ma perché sembravo esser stata inclusa in quella compagnia di depravati mentali?
Mi alzai aggrappandomi al muro, e senza badare ai loro sguardi o alle loro parole o a qualsiasi cosa fosse loro mi sistemai, e raccolsi tutto quello che si era spiaccicato a terra per colpa delle mie movenze da ippopotamo agonizzante.
Non avevo tempo da perdere, io. Una punizione mi stava chiamando, insieme a quella Tau che desiderava sicuramente distruggermi, e avevo una vita asociale ancora da mantenere. Così, sistemata la cartella e messa sulle mie spalle, me ne andai senza nemmeno salutare, convinta che loro non si fossero accorti di nulla. Ma la mia convinzione mi fregava ogni santissima volta che osavo anche solo nominarla nella mia mente.
Cioè, loro erano lì belli e beati sul mio banco a parlottare con quei loro occhietti da cani e a mordersi le code a vicenda, senza nemmeno osare aiutare quella povera sventurata a qualche centimetro sotto di loro, chi mai andrebbe a pensare che mi fermassero. E soprattutto come.
Avevo sorpassato il mio banco, e i tre non avevano mostrato variazioni nel loro sistema al mio primo passo verso la libertà, e dunque ero tranquilla su quel che il futuro poteva offrirmi. Poi, come ormai succedeva fin troppo spesso, un qualcosa mi afferrò quel maledetto polso sinistro, che non sarebbe mai guarito da quegli enormi lividi, e mi tirò indietro, facendomi quasi cadere.
Una bellissima lode alle buone ragazze di chiesa, con tanto di fini e ricercati aggettivi, e mi ritrovai, con ancora la mia voce che rimbombava nella mia testa, con le braccia di Katherine intorno al mio collo, con tanto di mano nella mano con James.
- Non so se l'hai fatto per me - Incominciò a mormorarmi all'orecchio sinistro quella ragazza timida e dal carattere piccolo e fragile, mentre stringeva dolcemente quella specie di statua di marmo che ero.
-Ma grazie, Will-

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