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Noah Wilbur aveva raggiunto la sua fama in modo così veloce che ancora non lo aveva realizzato del tutto.
Alcune mattine si svegliava pensando di dover andare a scuola, e i suoi compagni di band dovevano puntualmente ricordargli che non la stava più frequentando.
L'episodio più strano, quello che gli aveva ormai inculcato nel cervello che tutto era vero, che ormai era famoso, era avvenuto pochi giorni prima, in un grande magazzino vicino a casa sua.
Stava cercando degli addobbi per la nuova casa di sua madre, quando una ragazza aveva iniziato ad urlare istericamente, indicandolo come se fosse stato un alieno.
-E' Noah Wilbur, il cantante degli Over the Edge!- aveva esclamato, e le persone vicine a lei si erano voltate come richiamate da un fischio per gli uccelli.
Simili ad un'onda i presenti lo avevano accerchiato: il suo respiro stava accelerando, e sua madre aveva dovuto chiedere gentilmente di formare una fila ordinata per chiedere gli autografi.
Quando ormai era rimasta una sola persona, il ragazzo aveva la mascella distrutta dai troppi sorrisi e la mano indolenzita, ed era diventato troppo stanco per fare acquisti.
D'altra parte, il Natale era sempre stato un evento frenetico per lui, anche prima di diventare famoso.
Le cene con i familiari della madre, sempre attenti ad ogni particolare, erano la sua occasione per divertirsi.
Adorava in particolar modo dare fastidio a suo zio Harry: grande giocatore di golf e imprenditore della Città degli Angeli, era un uomo decisamente troppo snob per i suoi gusti.
Ogni anno inventava qualcosa per farlo sfigurare, come rompergli una delle costose mazze di alluminio, o sputargli nel piatto che sua madre aveva preparato con cura.
Il suo scherzo preferito era avvenuto l'anno prima, con la complicità di sua sorella e dei suoi compagni di band (quando ancora Dean ne faceva parte): tutti avevano urinato copiosamente sulla giacca del suo nuovo completo Armani, e lui, disgustato e iracondo, aveva lasciato lì la moglie Alma -che a malapena stava trattenendo una risatina isterica da barboncino rabbioso- e i figli Gisella e Scott, e se n'era andato sbraitando ogni genere di offesa.
Qualche giorno dopo, Harry aveva inviato delle rose a sua madre chiedendo "umilmente perdono per la sfuriata sicuramente inopportuna".
D'altr'onde, come scriveva nel biglietto, "anche lui aveva avuto dei figli adolescenti, e sebbene i suoi non avessero mai riscontrato caratteri ribelli come quello di Noah, sapeva quanto fosse difficile metterli a freno".
L'unica reazione della madre era stata quella di gettare tutto nella pattumiera, e il ragazzo non poté fare a meno di notare quanto simili fossero.
Lo erano sempre stati.

Ultimamente, però, la sensazione crescente di irrequietezza legata al Natale lo stava attanagliando in modo insopportabile.
Era insicuro su quello che era giusto che facesse: un ragazzo con un minimo di senno avrebbe continuato a festeggiarlo a casa sua, con la famiglia della madre e la sorella, trascurando i compagni di band e il padre per un giorno.
In effetti suo padre si meritava che il figlio lo evitasse, e lo lasciasse solo il giorno di Natale a riflettere sul perché lo aveva abbandonato da piccolo alle cure della madre, senza mai avere una figura maschile come riferimento.
Eppure una parte di lui era così desiderosa di conoscerlo meglio, e di dirgli qualcosa come "Sono una persona abbastanza buona da perdonarti, ma non sono stupido abbastanza da fidarmi di te".
Non riusciva ad immaginare la faccia che avrebbe fatto: quegli occhi così simili ai suoi si sarebbero rabbuiati? Oppure avrebbe fatto finta di nulla, come se a parlare fosse stato un fantasma?
Non lo sapeva, naturalmente.
Una vibrazione leggera proveniente dalla sua gamba lo svegliò da quell'inquieto viaggio alle prese con la sua giovane coscienza. Un messaggio.
Involontariamente il suo cuore fece un salto, e una parte di lui sperò che fosse proprio la persona la cui voce non smetteva di turbargli -piacevolmente- i pensieri. In effetti, l'orario improponibile era un chiaro segnale di chi poteva essere.
Non con una certa titubanza, le dita che tremavano, lo lesse.
<Dobbiamo parlare, Noah. Posso venire a casa tua?>
Le sue speranze si erano rivelate fondate.
>Certamente. Ti lascio la finestra di camera mia socchiusa, okay?<
La risposta non tardò ad arrivare.
<Assolutamente no. Ti prenderai un accidente. Ti invio un messaggio appena arrivo>
Noah sorrise tra sé e sé.
>Troppe premure per un essere spregevole come me<
<Lo so, ma è più forte di me. Ci vediamo tra pochissimo>
Con uno scatto nervoso, il ragazzo gettò il telefono sul letto e si infilò un maglione nero.
Il giradischi che stava suonando una musica leggera era l'unico testimone dell'eccitazione palpabile che elettrizzava la stanza ricoperta da poster e scaffali ricolmi di libri.
Era buio, e il buio fu la coperta che celò l'incontro agli occhi indiscreti.

Il mio primo NataleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora