CAPITOLO IV - ROMA VICTOR

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– Oggi è il gran giorno! – gridò con forza un alto ufficiale dei giannizzeri, rivolgendosi ai reggimenti schierati in perfetto ordine davanti a lui – Presto Costantinopoli cadrà! La più grande e maestosa città dei cristiani diventerà la nuova capitale di un impero turco, che dominerà il mondo intero! Molto presto vedremo innalzare le nostre moschee anche a Roma, mentre i nostri eserciti arriveranno fino al grande oceano occidentale! Ma per prima cosa questa città deve cadere! Questo è l'ultimo ostacolo prima della marcia gloriosa che arriverà fino al cuore dell'Europa, divisa e debole. Voi siete uomini della stirpe di Osman Beğ, nulla vi potrà mai fermare! Siete con me? –

Un boato accolse le sue ultime parole, che dipingevano l'immagine di un futuro esaltante, con solo le antiche e ferite muraglie di Costantinopoli a dividerli da essa. Certo, la città non era mai caduta con un assalto diretto da terra, ma solo col tradimento interno. In più era l'erede dell'Impero dei Cesari d'occidente e d'oriente. Ma alla fine era solo una grande fortezza, che un tempo era stata la più grande metropoli del mondo, ora ridotta ad un tenue lumicino della passata gloria. Era ormai decadente e povera, con un popolo allo stremo e difesa da mercenari stranieri. Come avrebbe fatto a resistere alle armate del Profeta Muhammad?

Era il 6 giugno e l'alba era appena spuntata. Davanti alla Porta Di San Romano erano schierati quasi ventimila turchi, mentre altrettanti si apprestavano ad attaccare altre sezioni delle mura con attacchi diversivi. I raggi perlacei del sole mattutino andarono a riflettersi su migliaia di lance, spade, scudi, elmi e corazze, irradiando un bagliore accecante mentre centinaia di tamburi e pifferi intonavano inni marziali, che aumentarono l'adrenalina dei soldati e intimorirono i difensori.

La marea turca si riversò nella piana antistante alle mura e come un fiume di cavallette saltarono nei fossi e nelle trincee preparate in previsione dell'assalto. Riempirono così quella zona di terra di nessuno che, dopo più di un mese di assedio e di assalti, si era trasformata nell'anticamera dell'inferno, piena di fossi fatti dalle cannonate, di armi spezzate e di cadaveri insepolti, in uno stato avanzato di decomposizione. In questo luogo da incubo i turchi attaccarono con forza e vigore, innalzando fino all'alto dei cieli stridule grida di guerra nella lingua dei loro padri.

– Allāhu Akbar! Allāhu Akbar! Dio è grande! Dio è grande! –

– Aspettate che siano a tiro! – ordinarono dozzine di ufficiali romani e latini agli arcieri, ai balestrieri e ai colubrinieri sulle mura. Che risparmiassero la prima bordata fino a quando non avrebbero massimizzato gli effetti sull'orda turca.

– Fuoco! Fuoco a volontà! Per Cristo e per il basileus! – gridarono gli addetti alle macchine di assedio, sulle grandi torri di pietra e mattoni.

Una valanga di massi e di dardi incendiati cadde sugli attaccanti, seminando la morte tra le truppe nemiche. A centinaia vennero feriti e caddero a terra accecati o storpiati, ma le loro grida si spensero rapidamente quando vennero calpestati dai compagni che avanzavano, facendo una fine atroce. Nonostante il fuoco incrociato di mangani, catapulte, balliste e piccoli pezzi d'artiglieria i soldati del Sultano avanzarono animati da un folle fanatismo e infine arrivarono a cento metri dalle mura.

– Tiratori... Lanciate! – ordinarono all'unisono i comandanti dei vari settori difensivi e subito dopo una pioggia letale venne scagliata a falcidiare ulteriormente le file nemiche, aprendo grosse falle nello schieramento. Lo sterminio continuò perché gli ottomani dovettero passare con fatica e lentamente i fossati e gli sbarramenti posizionati sotto le mura per rallentare gli attaccanti e dare più tempo agli imperiali e i loro alleati di fare il tiro al bersaglio.

Neanche questo bastò, perché molti turchi arrivarono alla base delle mura e iniziarono a lanciare corde con rampini e ad issare scale, che a dozzine furono appoggiate sugli spalti. Presto ci sarebbero stati i primi corpo a corpo, ma ad un ordine perentorio dei loro ufficiali i difensori iniziarono a gettare olio bollente, pece e fuoco greco, che seminò distruzione e morte quando furono gettate dozzine di torce.

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