Quella nell'immagine è la ragazza salvata
Era il giorno del mercato ad Anadea e dato che era uno dei miei posti preferiti, avevo deciso di passare lì la mia giornata nella speranza di potermi distrarre dai diversi pensieri che mi passavano per la testa. Ero seduta sul tetto di uno dei palazzi, che affacciavano sull'enorme piazza, circondata dalle caseggiate della gente ricca della città che per dimostrare il loro benessere avevano deciso di fare gli intagli d'oro intorno alle finestre e alle porte. Erano tutti edifici attaccati l'uno all'altro, ma nonostante ciò era possibile distinguere la casata di appartenenza dai diversi stemmi posizionati sotto il tetto di ciascun palazzo di marmo bianco. Al centro della piazza si estendeva il mercato il quale si svolgeva una volta a settimana.
I mercanti erano disposti in modo tale che delle volte si faticava a comprendere di chi fosse la merce venduta rendendo anche difficile il passaggio ai diversi passanti che avevano deciso di avventurarsi in quella giungla di mercanzia. Infatti la varietà di prodotti attirava la gente di tutto il paese, rendendolo uno dei posti più affollati e chiassosi. Si poteva trovare gente di tutte le classi sociali, come persone semplici, contadini, che una volta a settimana si riunivano per poter offrire alla loro famiglia un pasto decente. Loro si svegliavano la mattina all'alba, per racimolare le verdure avanzate durante la settima, le disponevano in cesti o carri, che poi sarebbero stati trasportati fino alla piazza del mercato. Ma anche gli stranieri, venuti da terre lontane, con manufatti e stoffe pregiate provenienti da tutto il mondo. I contrastanti colori della diversa mercanzia, il profumo del pane fresco appena sfornato, l'odore delle fragole appena raccolte si mischiavano con la puzza di letame delle pecore portate lì per poi essere ammazzate per diventare carne da macello. Erano tante le cose che in un altro posto sarebbero sembrate così discordanti, in quel giorno, in quella piazza, sembravano essere il quadro perfetto dipinto da un pittore professionista. Era questo quello che mi piaceva maggiormente, il fatto che in quel momento il ricco e il povero erano accomunati dalla necessità di essere in quel posto. Certo le ragioni potevano essere differenti, ma rimaneva il fatto che erano lì, affiancati dalla mancanza di spazio, respirando la stessa aria, calpestando lo stesso suolo.
La visione di tutto questo, dall'altezza in cui ero seduta, lo rendeva ancora più interessante, infatti non potevo distinguere i volti delle persone, nemmeno la loro casta sociale, per me erano tutte formichine che potevo schiacciare con il mio dito. In quel momento era proprio quello che avevo immaginato, avevo appena portato lentamente il mio pollice e l'indice vicino al mio occhio e vi avevo racchiuso uno dei tanti passanti, o almeno quello era quello che era accaduto nella mia mente, ma nella realtà non era così, nella concretezza quell'essere continuava a procedere avanti per la sua strada inconsapevole della mia esistenza. Solo gli uccelli appollaiati vicino a me erano testimoni del mio atto, eppure incuranti del mio gesto, procedevano con la loro inutile vita. Li odiavo quegli animali. Mi davano l'impressione che mi osservassero con quegli occhi neri come la pece, in attesa di un mio movimento brusco che li facesse volare via, lontano da me e da quel posto, per andare in uno migliore di quello. In fondo anche io avrei voluto farlo, spiegare le mie ali, gettarmi da quel palazzo, sentire il vento che rigava il mio volto, la sensazione di brivido nel mio stomaco dovuta alla brusca discesa ed in fine la piacevole risalita. Sarei volata dritta fino al tramonto, lasciandomi alle spalle tutto ciò che avevo, dimenticandomi di tutto e di tutti.
A quel pensiero mi alzai, facendo volare via la maggior parte dei volatili, mi incamminai verso la sponda e mi affacciai dando un'occhiata verso il basso. Se avessi deciso di saltare sarei potuta morire da quell'altezza. Feci un altro passo, ora le dita dei piedi erano al di fuori del tetto. Continuavo ad osservarle mentre le muovevo con un fare nervoso. Poi guardai di nuovo verso la piazza colma di gente. La mia ombra oscurava parte di essa, ma nessuno sembrava averlo notato. Erano tutti troppo indaffarati con le loro faccende. Aprii le braccia e le lunghe maniche della maglia avevano fatto assumere alla mia figura delle sembianze d'un angelo. Chiusi gli occhi. Il vento scompigliava i miei capelli e li portava sul volto, come per frustarmelo, cercai di assaporare il tepore del sole sulla mia schiena, ma la sensazione che la brezza che mi spingesse a intraprendere la decisione di lanciarmi nel vuoto era la più attanagliante. Un altro piccolo passo ed avrei potuto essere anche io un uccello. Come sarebbe stato bello poterlo fare.
Sentii una lacrima solcare il mio viso. La scansai con frustrazione, con la mia manica, ma subito un'altra decise di riaffiorare, sarebbe potuto essere un momento di serenità, di pace, un attimo di ricongiunzione con me stessa, però i ricordi avevano deciso di rovinare tutto. Infatti proprio in quel momento le memorie di mia sorella si erano fatti vivi in me. Erano ormai cinque anni che lei era deceduta, tuttavia non ero ancora riuscita ad abituarmi alla sua assenza. Mi mancava terribilmente ed avrei tanto voluto avere la possibilità di porre fine a quello straziante dolore, ma le avevo fatto una promessa che non avrei mai potuto infrangere.
Così decisi di scansare quell'istinto di suicidio e mi abbandonai ad un miserabile pianto. Mi allontanai dal margine del tetto e mi accasciai su me stessa. Ero lì, lontano da tutti, sentendomi più sola che mai, dimenticata dal resto del mondo, le immagini della sua morte erano ancora impresse nella mia mente come il ferro incandescente rimane impresso sulla pelle. Indelebile era il suo sangue sulle mie mani, il terrore nei suoi occhi verdi, una volta lucenti e fieri, ma nella mia testa erano oramai spenti e vacui. Il dolore del suo ricordo mi straziava il petto ed avevo cominciato a tremare per le convulsioni causate dal pianto. Non vi era luce che potesse rischiarare il mio cuore o sole che potesse riscaldarlo. Solo la malinconia e la rabbia di non poter cambiare il mio passato. Era sempre così quando l'anniversario della sua morte era vicino. La nostalgia e il senso di colpa prendevano il sopravvento su di me e non riuscivo mai a controllare quel tornado di emozioni. Sentii la testa girare creando una forte nausea dentro di me. Cominciai a tossire e a vomitare la poca bile che il mio corpo aveva creato. Non riuscivo più a respirare, boccheggiavo nella speranza di cogliere più aria possibile. Persi il senso dell'orientamento non riuscendo più a capire quale fosse il basso e quale fosse l'alto. Tutto ciò che desideravo era porre fine a quell'immensità di dolore che stavo provando. Continuai a piangere fin quando le lacrime non finirono e un senso di apatia mi sopraggiunse. Mi sentivo vuota e stanca. Anche se guardavo la piazza e i palazzi, la mia mente era spenta. Passai ore in quello stato vegetale, senza realizzare o immagazzinare nulla. Il tempo scorreva il sole piano piano calava, fino a diventare troppo debole per riscaldare il mio corpo, ma non mi importava. Sentivo i muscoli dolere per le diverse ore passate nella stessa posizione, mentre la mia mente vagava nel passato, travagliando tra gli istanti felici e i momenti tristi, accentuando la mia solitudine.

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La Vera Forza
FantasíaTratto dal libro: "Sei venuta ad offrirmi altro sangue?" Mi domandò vogliosa la Luce sovrastando le mie grida. Gli spasmi di dolore erano così forti, che persino pronunciare un semplice"sì" mi sembrò impossibile, ma lei capì la mia affermazione. So...