Esisteva una volta Kitza, la madre di tutte le stelle, che nel suo palazzo di nuvole era intenta a preparare abiti d'oro per tutti i suoi figli astri quando improvvisamente si presentarono davanti a lei un gruppo di stelline che protestavano perchè, secondo loro, le loro vesti non erano sufficientemente belle. La madre, cercò di rabbonirle e le pregava di non fare troppo chiasso e di non farle perdere tempo perchè doveva ancora vestire tutti gli altri astri. Ma le stelline non l'ascoltavano e continuavano a lamentarsi. A quel punto passò da quelle parti Micar, il re degli spazi che, dopo aver saputo il motivo per il quale le stelline facevano tanto rumore, si indignò a tal punto che le cacciò dal firmamento strappandole di dosso gli abiti che avevano e scagliandole nella terra in mezzo al fango. Kitza, profondamente addolorata di quanto era accaduto era inconsolabile perchè pensava che le sue stelline sarebbero state in quel modo calpestate ed umiliate dagli uomini. Ma la signora dei giardini Bersto ebbe pietà della povera madre e decise di trasformare le stelline in fiori profumatissimi. Nacquero così i gelsomini.
Passeggiava con le mani dentro le tasche dei jeans sulla strada verso casa: dieci minuti di strada a partire dal Bangladesh, un localetto che dava direttamente sul mare dove Federico e i suoi amici si riunivano per bere birra nelle calde serate estive.
Erano le due passate, ma la strada era sicura anche a quell'ora in quella località balneare dove sorgevano prevalentemente piccoli alberghi, negozietti e villette con il prato all'inglese. L'unica impresa che poteva rivelarsi ardua per il ragazzo era arrivare in camera sua alla chetichella, senza farsi sentire dalla madre. Federico già se la figurava in piedi, in fondo al corridoio, con la sua inconfondibile camicia da notte a fiori azzurri, mentre gli chiedeva con curiosità "Eri con una ragazza?".
Il portoncino di casa si faceva sempre più vicino mentre percorreva la stradina acciottolata. La proprietà della famiglia Visconti era unica, inconfondibile tra tutte le altre villette: a chiunque venisse dalla strada, la visuale sul piccolo giardino era resa impossibile da un'enorme pianta di gelsomino, che cresceva rigogliosa arrampicandosi sul cancello in ferro. I piccoli fiorellini bianchi erano a migliaia e impregnavano l'aria di un profumo delizioso. E, tra sguardi meravigliati e curiosi, la casa venne soprannominata Villa dei gelsomini.
In quel momento, appollaiata sotto l'ormai ingestibile cespuglio, Federico scorse una figura sconosciuta.
La mano gli corse lesta verso il cellulare, pronto a chiamare la polizia per cacciare via quel ladro che tentava di entrare in casa sua. Ma i ladri, abitualmente, non rubano mazzetti di gelsomino, no?
-Che stai facendo?
-Oddio!- Un gridolino spaventato. Un paio di grandi occhi verdi lo fissarono con sorpresa: -Mi hai spaventata- sussurrò questa volta, sollevando le folte sopracciglia chiare.
Stringeva in una mano una decina di piccoli fiorellini bianchi, mentre con l'altra ne coglieva altri.
-Cosa stai facendo?
Gli agitò il mazzetto sotto gli occhi, sbuffando. –Non si vede?
-Nessuno ti ha insegnato a non rispondere con un'altra domanda?- sorrise.
-Qualcuno deve avermelo detto, ma di rado faccio quello che mi dicono gli altri.
Federico si appollaiò accanto a lei. Colse un fiore e glielo porse: -A cosa ti servono?
-Non lo so ancora: magari li faccio diventare secchi e ci faccio un collage carino, o li metto in un barattolo così posso sentirne il profumo anche in camera mia. Insomma, sono piuttosto creativa, mi verrà in mente qualcosa.
-A tutti piacciono le persone creative, ma non credo che ai proprietari farà piacere che tu prenda tutti questi fiori- rise lui, ma gli porse ugualmente un altro paio di boccioli bianchi.
Fece una risatina soffocata, probabilmente nel timore di farsi sentire da qualcuno dentro casa. –Sciocchezze, non se ne accorgeranno.
-E perché mai?
-Perché lo fanno tutti, da sempre- avvicinando il naso a patata ai boccioli per sentirne l'odore. -La gente passa e strappa due o tre fiorellini, non se ne accorgono mai. Ai bambini piacciono, agli anziani piacciono, piacciono a tutti.
Federico aggrottò le sopracciglia: non se n'era mai accorto, ma avrebbe dovuto immaginarlo.
-Capirai,- proseguì lei, la mano ormai piena di fior i-non possono mica contarli ogni giorno e quindi sapere se ne manca qualcuno.
-Hai ragione- annuì lui, rimettendosi in piedi.
-Oltretutto non capisco perché non potino questa benedetta pianta, di tanto in tanto non farebbe poi male. Probabilmente sono troppo pigri per sprecare le loro energie a prendere un paio di cesoie in mano, oppure degli sciattoni che non si curano di niente- proseguì ancora, accettando la mano che Federico le stava porgendo per rialzarsi.
Alla luce del lampione, i tratti del suo viso erano molto più chiari: aveva una spruzzata di lentiggini sulle guance piene, e il naso a patata era sproporzionato su quel viso tondo. Non era bella, né brutta, sentenziò il ragazzo alla fine.
-Penso che ne darò una parte al nonno: piace anche a lui avere il profumo di gelsomino in camera.
Sembrava che stesse parlando più con se stessa che con lui, ma Federico rispose comunque, con un sorriso in viso: -Non dargliene troppi, altrimenti non puoi usarli per le tue idee creative.
Lei arricciò il nasone come se le avesse parlato in una lingua sconosciuta, poi si scostò i corti capelli castani dal viso, scoprendo un paio di orecchie leggermente a sventola. In quel momento, con i fiori in mano e circondata dall'enorme pianta, sembrava un piccolo elfo uscito da qualche libro di favole.
-Con il nonno posso condividere tutto- sentenziò severa. Gli voltò le spalle e si incamminò per la stradina.
-Dove stai andando?
Senza girarsi, gli rispose: -A rubare le peonie alla signora Averna.
-La signora Averna non coltiva peonie, che io sappia- disse lui, e la raggiunse con due rapide falcate.
-Infatti era una battuta- gli rispose, senza guardarlo. –Ovviamente sto andando a casa. Cosa pensi, che me ne vada in giro tutta la notte a rubare fiori di casa in casa?
Federico, per la prima volta, si indispettì. –Se credi che io pensi questo è perché sai di avermi dato una brutta impressione.
Lei finalmente lo guardò, senza smettere di camminare. Quei grandi occhi verdi lo studiarono con rinnovato interesse, come se si stesse accorgendo del suo interlocutore solo in quel momento.
-Beh, alla fine ho preso un po' di gelsomino a delle persone che non se ne fanno nulla, non è un dramma.
-Ti accompagno a casa- concluse lui, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni.
-E perché mai?
-Perché sono un gentiluomo e a quest'ora non dovresti camminare da sola.
Le labbra di lei si piegarono in un ghigno. –Capirai, il massimo che può accadermi da queste parti è essere attaccata da una falena.
-Possono essere letali.
-Vuoi fare il disinfestatore?
-In realtà non è tra le mie aspirazioni.
Un dolce risata nel silenzio della notte. Dolce, delicata, da riascoltare cento volte.
Federico non si voltò a guardarla, senza saperne il motivo. –Dove stai?
-Non è tanta strada, due minuti e sono arrivata.
-Mi ci vorrà meno tempo per tornare indietro.
Girarono per un'altra stradina, ancora più acciottolata. Le pietre scricchiolavano sotto il peso dei loro passi. I lampioni non era sufficienti a combattere l'oscurità della notte. Se non altro, si poteva ammirare meglio il manto di stelle.
-Abito nella villetta qui in fondo- indicò lei. –Siamo io e il nonno in un casa forse troppo grande, ma stiamo bene. Litighiamo solo per il vino, ne va matto ed io so che gli fa male. Un settantenne che beve tre litri al giorno non si può, ti pare?
Fece spallucce. –Se gli piace.
-Io dico che non deve e basta, ma non mi ascolta- sbuffò lei. –A mia zia invece non importa niente se beve troppo, le poche volte che viene a casa con quello zotico di suo marito è per chiedere soldi al nonno. Appena ottenuti, se ne vanno, senza nemmeno degnarsi di chiedergli come sta, se di tanto in tanto ha bisogno di aiuto, o se i soldi per arrivare a fine mese a lui bastavano. Niente, eppure è sua figlia, no? Io non ho parole davanti a tanta ingratitudine.
Federico rimase zitto, bombardato da una serie di informazioni che gli arrivavano addosso così, come un fiume in piena, senza apparente ragione. E se c'era la conosceva solo lei, quel folletto dalla lingua lunga che nel cuore della notte gli rubava i fiori in giardino.
Gli venne in mente quello che diceva sempre sua madre 'A volte la gente non ha bisogno di consigli, ma di qualcuno che ascolti'.
-Sono arrivata- dichiarò lei, arrivati davanti un grande cancello arrugginito. La casa non si distingueva con il buio, non c'era neanche una luce ad illuminare la porta d'ingresso.
Decise di non farle domande. –Bene.
-A proposito, io sono Emma.
Le strinse la mano piccola ma forte, leggermente sudata. –Sono lo sciattone non curante di nulla, o forse il pigrone nullafacente –devo ancora capirlo questo- che abita nella casa con la pianta di gelsomino. Puoi chiamarmi Federico, se vuoi.
Emma ritirò subito la mano, spalancando gli occhioni verdi. –Questo è davvero imbarazzante- sibilò, guardando la mano con cui stringeva il mazzetto di fiorellini.
-Più per te che per me.
-Emh... mi sa che questa sarà la prima e l'ultima volta che ci incontriamo. Piacere di averti conosciuto, Federico, spero di non incontrarti mai più.
Federico rise. –Ma dai? Per un po' di fiorellini?
-Mi dispiace, non volevo rubarli- sussurrò, mortificata.
-Fa niente, tanto li rubano tutti. L'hai detto tu no?
-Sì ma...
-E allora va bene- la fermò lui. –Sono felice di contribuire alla coltivazione di una mente creativa.
Emma rise, rigida e imbarazzata. –Bene... Allora... Bene allora, ciao?
Vederla balbettante e incerta fece capire a Federico che quella ragazza gli piaceva, lo incuriosiva.
-Magari al posto di non rivederci mai più ci incontriamo domani? Alle dieci davanti alla mia sciatta casa?
E l'imbarazzo, in quel viso, fece posto alla diffidenza, al dubbio, all'incertezza. Strinse le labbra sottili a tal punto che divennero una linea sottile.
Alla fine sorrise, forse sforzandosi di farlo, forse con sincerità, non si poteva dire. –Forse.
Buffo come il suo stato d'animo, le sue emozioni cambiassero così velocemente, in un altalena che va su e giù, sempre più in alto, sempre più in basso, senza mai fermarsi.
E si allontanò, aprendo il portone cigolante e sparendo nel buio di quel giardino misterioso.
Erano le tre e dieci quando Federico aprì la porta della sua stanza.
-Eri con una ragazza?- chiese sua madre in un bisbiglio, dal fondo del corridoio.
Tre tonfi.
-Alzati pigrone!- gridò Albertina sbattendo il pugnetto sulla porta altre tre volte. –La mamma dice che essere rientrato tardi non ti autorizza a dormire fino all'ora di pranzo.
–Sparisci mostriciattolo!
Si alzò a fatica, arrancando nel buio della camera da letto, e scostò le tende: la luce solare lo investì con forza, facendogli dedurre che fosse mezzogiorno passato.
Trascinarsi fino al bagno fu un'impresa titanica, strisciava i piedi sul parquet scuro stropicciandosi gli occhi ancora stanchi. Solo l'acqua fredda riuscì a riportarlo sulla terra, la testa improvvisamente lucida, gli occhi svegli e attenti.
Albertina lanciò un gridolino quando lo vide entrare in cucina: -Fede-Fede-Fede-Fede! Fede sto cucinando!
Gli agitò sotto il naso un mestolo di legno sporco di salsa, che mamma Simona si premurò di sequestrarle prima che finisse sul pavimento.
-Mattiniero come al solito.
-Il gallo non ha cantato.
Guardò la mamma mescolare la salsa nella pentola e Albertina, alla sua sinistra, attenta come un piccolo soldatino e irrequieta come una pulce. Erano identiche: stessi capelli scuri, stessi tratti delicati. Albertina era la mamma all'età di sei anni, e a provarlo c'erano delle foto in bianco e nero di una piccola Simona in un costumino da bagno più grande di lei.
-Non sfidarmi tesoro, domani mattina potrei assicurarmi che ci sia un gallo sotto la tua finestra- sorrise, e le piccole rughe d'espressione fecero capolino vicino alle labbra sottili. La rendevano più bella.
-Sì!- gridò la piccola pulce, affascinata dall'idea. –A fare chicchirichì a Fede!
La mamma era il suo idolo, la seguiva come un'ombra ovunque. Non c'era mai niente di sbagliato in quello che faceva: la mamma era bella, buona, brava, simpatica, divertente, agli occhi di Albertina, senza difetti. Voleva essere come lei.
-Non ti chiedo cosa vuoi per colazione, tra poco pranziamo.
-Cosa si mangia?
-La mamma ed io abbiamo cucinato il ragù!- saltellò felice la bimba, facendo svolazzare la sua gonnellina fucsia.
-Sarà buonissimo pulce- rise, allungando una mano verso una carota sulla tavola.
-Ma così ti rovini il pranzo!- borbottò in risposta lei. Il piccolo soldatino marciò, gonfiando le guance. –Dammela subito!
Eccola lì, il visino severo e le braccia sui fianchi, a comportarsi come una perfetta mammina. Era esilarante.
-Se mi dai un bacio.
La bambina accettò le condizioni, stampò un bacio sulla guancia del fratello e gli sequestrò la carota rubata, trionfante per essere riuscita ad ottenere ciò che voleva.
Mamma Simona si fece aiutare a prendere tovaglia e posate per apparecchiare in sala da pranzo.
-Devi farti la barba- gli disse prima di uscire dalla cucina, sfiorando il mento spinoso dopo quattro giorni dall'ultima rasatura.
La prima cosa che fece Federico, una volta in camera sua, fu tastarsi il viso. La barba era corta e pungente, fastidiosa per chi provava ad accarezzargli una guancia: era così che la portava suo padre. Gli venne in mente quando da piccolo gli strizzava le guanciotte, reclamando baci sul suo viso ruvido. Lo faceva anche con Albertina, un paio di anni prima, quando ancora Simona non lo avevo tradito con un uomo che si sarebbe poi rivelato un approfittatore. E che avrebbe rovinato la sua illusione di avere una bella famiglia felice, ovviamente.
-Era sexy da morire, ti giuro- disse Marco estasiato, gli occhi ancora brillanti per l'eccitazione.
Federico rideva, scarabocchiando su un blocco sottili petali delicati. –Ah sì?
-Sì, cazzo! Ma non l'hai vista ieri sera?
Ricordò vagamente una figura sottile, sinuosa, con lunghi capelli rossi come il fuoco. –Forse.
-Ma dai, quella salta agli occhi di chiunque!- ululò lui, muovendo le mani su un corpo che conosceva solo lui. -Ed io ci ho fatto sesso, porca buttana! Del gran sesso!
I petali erano diventati un bocciolo piccolo piccolo, a forma di stella. –Puoi non gridarlo? Mia sorella potrebbe sentire.
Già si immaginava Albertina che chiedeva alla mamma 'Che vuol dire buttana?'. Decisamente non doveva succedere.
Marco non sembrò affatto toccato dalla rivelazione, stravaccato sul dondolo sembrava più preso dalle immagini che stava rievocando con il suo racconto.
-Dovevi vedere come si muoveva, era una visione meravigliosa.
-Ah-ah, immagino- Federico non si scomponeva per niente, teneva i piedi incrociati sopra il tavolo da esterno del suo giardino, cosa che avrebbe senz'altro fatto infuriare la madre, se solo lo avesse visto.
Nel blocco, che sembrava più meritevole di attenzione del suo amico, aveva tracciato accanto ai piccoli fiorellini delle foglie, in un tentativo di copiare la pianta che invadeva la sua proprietà nella parte anteriore.
-Dillo che non te ne frega niente.
-Non me ne frega niente, infatti- ripetè Federico, mettendosi la matita dietro l'orecchio.
Risero entrambi, forte. –Non riesco a capire come le tue fantasie erotiche non possano risvegliarsi ai miei racconti.
-Forse ci eccitiamo per cose diverse.
-O forse sei gay.
-Ho sempre provato una certa attrazione nei tuoi confronti, magari è per questo- ammiccò.
Marco parve soddisfatto della risposta. –E chi non la prova?
Le piante ondeggiarono, sospinte da un improvvisa ma delicata folata di vento. Qualche fogliolina verde finì su Marco, sui ricci biondi che facevano impazzire tutte le ragazze che gli capitavano a tiro, esattamente come il fisico muscoloso, gli occhi trasparenti come l'acqua e la mascella quadrata.
-Quindi la richiami?- Quella era la prova del nove. Tutti le conversazioni sulle sue conquiste si concludevano con quella domanda, con un 'no' secco, e con qualche scusa accampata come giustificazione. 'Non lavorava bene di lingua', 'Era totalmente piatta', 'Le puzzavano i piedi', quando dieci minuti prima ne tesseva le lodi eccitato.
-Credo proprio di no.
Tipico di Marco, si disse Federico. –E perché?
-Perché non penso che riuscirei a sopportare ancora il suo accento russo- disse, grattandosi il mento liscio. Paradossalmente, a vent'anni non gli cresceva ancora la barba. –Per carità, era sexy, ma il gioco non vale la candela.
-Come sempre, no?
Marco si sedette accanto all'amico, spingendogli giù dalla tavolai piedi. –Smettila di fare quei disegni da checca e ascoltami.
-Sono tutto orecchi.
C'era una velata presa in giro, nei suoi occhi, nel suo tono, nel modo in cui chiuse il suo blocco e incrociò le braccia sul tavolo alla richiesta di Marco. Sapeva che si stava per lanciare in uno di quei discorsi da uomo vissuto, che non gli si addicevano affatto.
-Il gioco non vale mai la candela, quando si tratta di donne- spiegò lui, serio e convinto. –A vent'anni, una donna ti serve solo per riscaldare il letto una notte, per divertirti. Non vale la pena fare nient'altro.
-Sì, certo.
Gli lasciò un energica pacca sulla spalla. –Ecco bravo, ricordatelo stasera. Si rimorchia di brutto!
Federico storse il naso. –No, stasera non ci sono. Devo fare una cosa.
-E cosa c'è di meglio che portarsi a letto qualche bella pollastra?
-Ognuno ha le sue priorità.
Marco si alzò: non era nel suo interesse stare ancora lì, né tantomeno insistere affinché Federico gli dicesse di più. Si conoscevano da una vita, ma non si conoscevano affatto. Lo stare insieme era fine a se stesso, non c'era affetto a legarli.
-Va bene, quando smetterai di essere annoiato dal mondo e avrai voglia di una bella botta di vita, fammi uno squillo, amico.
Un cenno del capo, e si era già avviato. Federico lo seguì, un po' con lo sguardo, un po' camminando. Si fermò davanti alla pianta di gelsomino, quando Marco era già uscito dal cancelletto.
I piccoli fiorellini bianchi erano identici a quelli che aveva disegnato con maestria sul suo blocco, ma non avevano lo stesso odore.
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La ragazza dei gelsomini
RomanceDalla storia: Emma sbuffò esasperata. -Mi baci o no? -No. -E perché?- domandò indispettita, sfoggiando la sua migliore espressione contrariata: le labbra arricciate, gli occhi verdi taglienti. -Perché il tuo chiederlo mi ha fatto passare la voglia...