Capitolo 2

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Quel giorno, aspettavo di parlare con la mia collega a proposito di un bambino che abbiamo dovuto mandare in una casa famiglia. Anche se non è mai bello dover prendere questo tipo di decisione a volte è indispensabile. Come ero quel giorno? Portavo il trucco, lo chignon e indossavo uno dei miei soliti vestiti eleganti, ma avevo delle occhiaie paurose. Questa, però, era la mia routine. Sempre la stessa sensazione, sempre la stessa musica. Chopin, Beethoven, Mozart era irrilevante, il problema era che la sentivo sempre e vedevo sempre quelle mani. Mani che suonavano senza interruzione quella straziante melodia e quando finalmente mi avvicinavo per risalire al viso del suonatore mi svegliavo. Tutte le notti, tutte le sante notti. Ero seduta sulla mia scrivania quando Elena, la mia collega e socia, bussò e dopo il cenno di accomodarsi si sedette. << La famiglia è disperata e ho paura che abbiamo commesso un errore>>, affermò di punto in bianco con un ansia troppo contagiosa. E in quel momento non ne avevo bisogno. Elena ha un bel viso occhi grandi e marroni capelli corti, bassina e magra, molto magra, troppo. Da quando la conoscevo la vedevo sempre più magra. " Ma senti da che pulpito parte la predica" , si intromise la mia dolce coscienza. Una domanda: ma si possono fermare i pensieri? No vero? << Che intendi dire Elena?>> le chiesi non più di tanto stupita. Era troppo buona e molte volte abbiamo rischiato per questo, però volevo sentire le motivazioni di quell'affermazione. << Intendo che forse dovremmo dare a quei genitori una chance, forse non è come pensiamo>>, disse girandosi le mani. Tic insopportabile potrei aggiungere.
<< Uno noi non pensiamo ma agiamo e due cosa ti ha fatto cambiare idea?>>, le chiesi fingendomi interessata e mentre Elena era in procinto di rispondere, il mio telefono squillò. Era Steven. Ma cosa voleva a quest'ora? Sapeva quanto mi irritava essere disturbata in ufficio. "Buon pomeriggio amore" sussurrò in modo dolce. Già amore. "Buon pomeriggio a te Steven, c'è un motivo per la tua chiamata? Sto con Elena e discutiamo di un bambino di sette mesi che abbiamo portato in una casa famiglia", enunciai per fargli capire che era un momento delicato e sbagliato. Da un po' tutte le sue intromissioni erano sbagliate. "Dev'esserci un motivo per chiamare la mia futura moglie?" Futura moglie? Tra me e lui si è parlato di matrimonio solo i primi mesi dopo la proposta. Sorrido in modo che mi potesse sentire. In effetti no non deve. Ma era passato così tanto tempo...
“Allora  hai chiamato  per sentire la mia voce tesoro?”         Tesoro? L’ho chiamato  tesoro?  Ero  incredula io  stessa  per  la parola che mi  uscì  di bocca.  Erano  praticamente  due anni che non  riuscivo  più  a  chiamarlo in nessun  altro  modo se  non  Steven o al  massimo Steve.  Ma  questa è  un'altra  storia. “Mi ha chiamato tuo padre”  disse in  tono preoccupato. Ero scioccata. “Mio padre? Ti ha chiamato? Ha  chiamato  te?”,  sbottai incredula. “Ha chiamato  perché erano settimane che non  gli rispondevi” continuò in  tono di rimprovero. “E  si stupisce di  ciò?”  ribattei.  “Comunque  Steve  ho da fare  ci vediamo  stasera a  casa.”  Dissi chiudendo in assoluto quella conversazione. Non rispose e riattaccò.  Elisa mi guardava con  la faccia interrogativa,  ma non  mi andava di certo  di  spiegarle di  mio padre,  ma non  perché era  lei,  ma perché  di lui non  volevo  parlare proprio con  nessuno.  Da quando mamma era  morta  aveva iniziato  a  rifarsi  vivo  pensando che io,  mi  correggo che  noi, potessimo  aver  bisogno di lui.  Ma  ne  io  ne tantomeno i  miei fratelli  abbiamo  mai  avuto bisogno di lui.  La  mia mamma,  la mia bella,  dolce e stupenda mamma  era  di lei  che  avevo  bisogno  ma non  c’era  più.  Era  morta proprio  nel  periodo in  cui  una figlia può avere  più  bisogno della sua mamma.  Mi  sono  sempre  chiesta  se avrei avuto la forza  di non  fare  quello che  ho fatto,  di oppormi  a quella scelta  se lei fosse stata ancora  in  vita.  Ma ormai da quel che è fatto  non  si torna indietro.  I  se, i  ma o  i forse  erano  e sono tutt’ora  solo  degli stupidi appigli per  sentirmi  meno colpevole. Ed  io lo ero,  ero colpevole di  non  essere  stata più  forte  e di  aver accettato una decisione presa  da altri  perché  troppo impotente per  fare  opposizione. Elisa mi fissava con  quei suoi  occhioni  marroni,  come  se provasse  pena,  ma io non  avevo di  certo bisogno della pena  degli altri.  Eppure quando tutto  successe lei  mi  è  stata  vicina. <<Ti manca vero?>> disse accarezzandomi  il  braccio. << Di chi  parli Elisa?>>,  chiesi  facendo  la finta confusa,  anche se sapevo bene  di chi parlava e  delle lacrime iniziarono a  rigarmi il  viso.  Non  le diedi  modo  di  continuare  e aggiunsi  :<<   Hai presente la sensazione che provi quando  ti manca l’ARIA?>> D’un  tratto lei  mi  prese  una mano  e con  l’altra  mi  asciugò  una lacrima,  ma non  disse nulla.  Mi sembrava quasi di averla vista piangere ma  non  alzai di  nuovo lo sguardo,  non  volevo stesse male per  me.   << Vado a  prenderti  un  bel  caffè così  possiamo continuare  a parlare  del  piccolo  Michael.>>  Così dicendo  mi  lasciò le mani e uscì. La  mia mente vagava,  vagava e continuava a  vagare  ma pensava sempre a lei.                                                                         “Melanie tieni  per  mano  tua  sorella non  lasciarla mai andare”    la sua voce  mi  rimbombava  nel  cervello,  ancora così  nitida,  così soave.  Oh  mamma! “Mel  ce la faremo”  diceva  “Noi quattro  insieme ne  usciremo” Era  malata la mia  povera  mamma e aveva provato  a  lottare.  Ha lottato per  tre  anni  ma quella maledetta  malattia  la avuta vinta su di lei.  Era  così forte,  così allegra e  niente  la scoraggiava e quando dico niente  è niente.  Quando stavamo al  suo capezzale all’ospedale ci guardava a  tutti e tre come se facesse  finta  di  non capire.  Ma capiva,  lo sapeva e  lo ha sempre  saputo.  Ci  osservava a me e mia  sorella e  diceva: “Cosa sono queste facce?  Perché non  vi truccate un  po’?  Non sono  mica  morta io?”.  E,  da quel  giorno  fino all’ultimo,  io e  mia sorella,  anche se con  la mano  che pesava  un  macigno,  ci truccavamo.  Per lei.  Per vederla sorridere,  forse,  per  quella che ogni giorno poteva essere  l’ultima  volta. Era  una  donna eccezionale.  Ci ha  tirati su  praticamente  da sola. Anzi  potete levare  il  praticamente.  Nostro padre  non  c’è  mai stato e non  ha mai aiutato.  Mai.  E  ora  chiamava.  Che faccia tosta.  Non  lo sopportavo  e se gli parlavo  era  per  pietà o  forse  per non  avere  ulteriori rimorsi  nella mia vita. <<Mel  allora  che facciamo con  Michael?>> la voce squillante  di Elisa mi riporto alla realtà con  una bella  tazza  di caffè  fumante. <<Elisa senti>>,  iniziai a dire,  << dalle segnalazioni  che  ci sono arrivate quel  bambino  non  si nutriva da giorni>>,  non  dava cenno di disapprovazione  e quindi continuai,  <<  e  c’eri  anche tu con  me quando il  medico ha detto che dal  risultato delle analisi poteva essere così,  in quanto i  suoi  valori erano sballati>>,  le dissi in  tono quasi  di rimprovero. <<Ma…>> provò a  interrompermi ma la  bloccai. << Ma…  abbiamo il  dovere ma anche il  diritto  di verificare se realmente  queste persone  siano  in  grado  di accudire loro  figlio,  e soprattutto  di  verificare  se gli hanno fatto del male.  E questo  è davvero tutto  >>,  conclusi.  Questo bastò  a  zittirla e  si diresse verso la porta. <<Ti voglio bene Mel  lo sai?>>  dichiarò  senza  neanche  darmi modo e tempo di rispondere e se andò nel suo ufficio.
Le  volevo  bene anch’io,  ma per  lei tutto il  mondo era  rose  e fiori. Doveva  svegliarsi proprio come  mi  sono  svegliata io  due maledetti anni fa.

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