Uno

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Erano le ventitré e mezza.
Come le persone che erano in quel bar.
Ventitré persone parlavano tra loro, argomenti diversi, toni contrastanti.
I loro aneddoti, le loro storie, le loro vite.
La mezza persona rimanente era seduta su una sedia vicino al bancone.
Silenziosa, tranne per i respiri pesanti.
Immobile, tranne per i leggeri brividi.
Il suo volto lo guardava dal vetro del bicchiere di fronte a lui.
Perché era lì?
Nel dubbio, chiese al barista un altro di quello che aveva ordinato prima.
La mano gli tremava.
Quando ebbe quel qualcosa, rovesciò il bicchiere.
-Mi... mi dis... pia... ce.- mormorò, cercando di risultare comprensibile, mentre un mal di testa gli divorava da entrambi i lati il cervello.
-Vada a casa.- gli consigliò il ragazzo al di là del bancone, prendendo uno straccio e iniziando a pulire energicamente la superficie.
L'altro tentò: -Ma...
-Via.- questa volta era un ordine.
Bofonchiando cose che neanche lui riusciva a capire, si alzò e cercò qualche soldo, uno degli ultimi che gli erano rimasti.
Buttò ciò che aveva sul bancone, che fu prontamente preso e incassato.
Un centesimo di resto rotolò sul ripiano.
Quel soldo freddo fu preso dalle sue mani fredde e gettato nella tasca dei pantaloni.
Barcollò verso l'uscita, afferrando prima di aprire la porta d'ingresso il suo cappotto leggero e la sua sciarpa morbida.
Fuori, lo accolse un vento forte e un gelo penetrante.
L'uomo iniziò a camminare con fatica, gli occhi bassi.
Si accorse solo molto dopo che aveva sbagliato la strada per arrivare in quel buco di casa sua.
L'autocommiserazione crebbe a dismisura. Le gambe gli tremarono e, stremato e sfinito, cadde a terra, mentre tutto si sdoppiava e si scuriva.
La monetina scivolò dalla tasca e rotolò tra i sanpietrini, precipitando nelle fogne attraverso un tombino a grate.
Le orecchie ronzavano sempre più forte.
Sentì dei tacchi rimbombare nella via, aprì la bocca per chiedere aiuto, ma ciò che gli uscì fu un rivolo di deboli suoni.
La persona che camminava, tuttavia, lo vide.
Con gran fretta, gli si accucciò vicino, trasse dalla borsetta che aveva un liquido, lo spruzzò su un fazzoletto e lo avvicinò al viso di quello, che non riuscì a scostarsi.
Cloroformio.
Quello fu il suo ultimo pensiero.

Quando si svegliò, era steso sulla stessa strada su cui era caduto.
L'alba stava spazzando via l'oscurità della notte.
A poco a poco, iniziò a sentire un gran dolore. Si alzò lentamente, appoggiandosi al muro di una casa che dava sulla via, sollevò la maglietta e guardò.
Tra la sua pelle, all'altezza del rene, svettava un rammendo cucito alla bell'e meglio.
Rimase, come inebetito, a fissare quel punto, finché un gran mal di testa si fece spazio tra l'incredulità.
Erano le sette, quando arrivò a casa.
Trovò delle banconote sul tavolo e un biglietto da parte di sua sorella: "ho trovato un acquirente per la statua del cagnolino. Ecco la cifra."
Dopo due secondi di lettura, egli strappò la carta in mille pezzi.
Quella sua parente non avrebbe mai ammesso che quei soldi erano i suoi, e che la statua del cagnolino ora era da qualche parte in una discarica.
Si trascinò nel suo studio, zeppo di sculture, avvicinandosi a un blocco di marmo, l'ultimo per cui si era svenato, dove svettava una statua completata per più di tre quarti.
Eris. La dea del caos.
Ciò che regnava nella sua mente in quel momento.
Lui accarezzò il volto della scultura.
Un lacrima cadde sul piedistallo.
Molte altre seguirono.
Erano ormai le otto quando decise di calmarsi.
Con nuova fermezza, afferrò il martello e lo scalpello.
E ricominciò a creare.

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