First Hunt
I riflessi sanguigni del sole inondavano la pianura e alcuni timidi steli d'erba, scampati alla gabbia della neve, oscillavano mossi dal gelido vento invernale. Mai, in vent'anni di vita, Alan aveva visto un cielo così azzurro in quella regione inospitale e fredda. Lasciò vagare lo sguardo su quella distesa bianca punteggiata da vivide macchie verdi. L'inverno era ormai alle porte, ma la natura quest'anno non sembrava intenzionata a lasciare il passo al ghiaccio e alle tormente, nonostante la nevicata della sera prima avesse già imbiancato il paesaggio.
Tirò le briglie e condusse il cavallo attraverso l'entrata Nord della città. Le due guardie poste ai lati delle enormi colonne di pietra lo squadrarono da capo a piedi, ma Alan sapeva che a Westmoth gli stranieri non erano visti di buon occhio e non ci dette peso. Si strinse il mantello nero attorno alle spalle e passò oltre gli sguardi ostili dei due soldati. Non appena si fu allontanato abbastanza, si guardò intorno, cercando di capire dove doveva andare.
Nonostante fosse tardo pomeriggio, la città era stranamente silenziosa. Le poche persone che incrociò lo ignorarono continuando a camminare a testa bassa. Alcuni garzoni erano intenti a sgomberare le strade dai tendoni e dalle bancarelle del mercato. Il malinconico miagolio di un gatto gli giunse alle orecchie, poi il silenzio avvolse nuovamente le vie di Westmoth. Alan rimase qualche minuto ad osservare l'operato dei ragazzi, godendosi quella calma assoluta dal sapore così familiare. Accarezzò la criniera del suo cavallo, riflettendo su quanto poco il tempo avesse influito sulla città che l'aveva visto crescere, quasi che quell'ammasso di case fatiscenti fosse immune a qualsivoglia cambiamento. Scosse la testa e scacciò quei pensieri troppo filosofici dalla sua mente.
Quando l'ultimo barile di vino venne caricato sui carri, Alan tirò le briglie di nuovo e si diresse verso un vicolo alla sua destra. Il giorno aveva già ceduto il passo alla notte e la luce spettrale della luna illuminava appena le strade della città. Le guardie si affannarono ad accendere le torce, ma l'oscurità in alcuni punti era più densa dell'inchiostro. Mentre procedeva sull'acciottolato, Alan alzò gli occhi al cielo, osservando le stelle. La luce di un lampione solitario si rifletté sui suoi capelli, donando alle ciocche rosse e argentee dei riflessi aranciati, simili a quello dei cavi di rame.
Si fermò davanti all'insegna di una locanda, la "Dama di Corte", e ascoltò il brusio delle voci al suo interno. Come ben ricordava, a quell'ora era sempre gremita di gente, tra soldati, mercanti e cittadini, tutti riuniti lì a discutere e rilassarsi dopo una giornata di duro lavoro. Sentì la voce di Mama Yaga, la proprietaria, che sbraitava ordini ai camerieri sovrastando di almeno tre ottave quel vociare allegro, condito dallo scalpiccio dei piedi degli uomini alle sue dipendenze e dalle battute scurrili del vecchio marinaio Elker. Alan si sporse dalla sella per sbirciare oltre il vetro opaco della finestra, cercando con lo sguardo quel vecchio consumato da una vita trascorsa in mare, dalla pelle color cuoio e i denti marci. Si vantava di aver ucciso un kraken quando era giovane e raccontava che era stato proprio quel mostro a portargli via la gamba sinistra. Era la storia che Alan gli chiedeva sempre di narrare quando era un bambino ingenuo e curioso, anche se non aveva mai creduto all'esistenza di quell'essere leggendario. Un sorriso amaro gli arricciò le labbra.
- Andiamo, Brunilde. Siamo quasi arrivati. -
La cavalla nitrì e riprese a battere gli zoccoli sul selciato.
Proseguirono fino alla fine della strada, dove si trovava una taverna più piccola e meno accogliente, dal nome "L'aquila fiera". L'insegna, divorata dalle piogge e dalla ruggine, cigolava mossa dal vento. Le luci all'interno erano soffuse e, a parte lo squittio di qualche topo, non si udiva nessun altro rumore. Ma, d'altronde, con la pessima fama che aveva, era più che normale che fosse vuota. Dopo aver legato il cavallo alla staccionata, Alan entrò.
Quando la porta si aprì, il suono di una campanella invase l'aria. Il locandiere, un uomo anziano e dalla pancia prominente, alzò lo sguardo dalla pinta che stava pulendo e squadrò il cliente. Aveva un paio di occhi porcini color fanghiglia e la faccia butterata. Alan scommise che l'odore di rancido e merda che inondava il locale non era dovuto solo allo sporco incrostato dei tavoli. Avanzò fino al banco e si sedette sullo sgabello che gli sembrava più pulito.
- Desidera qualcosa? - chiese l'uomo, senza distogliere lo sguardo dalla spada e dalla balestra che Alan portava sulla schiena.
Un lampo di avidità brillò nei suoi occhi.
- Una birra. -
L'oste sorrise, mettendo in bella mostra i suoi denti guasti. Poi, senza indugio, riempì la pinta che aveva appena finito di asciugare.
Alan la sorseggiò con calma. Sapeva di piscio.
- Le serve altro? - la voce dell'uomo era diventata melliflua, quasi gentile.
- No, grazie. -
Da fuori, un'ombra coprì la luna e il rumore delle ventole di una mongolfiera si diffuse nella notte. Alan si girò distrattamente e studiò di sottecchi gli altri tre clienti della locanda, che sedevano in silenzio intenti a trangugiare birra dai rispettivi boccali. Aveva avvertito i loro sguardi addosso fin da quando era entrato e non gli era sfuggita l'attenzione che avevano dedicato alle sue armi, così come aveva fatto l'oste.
- Che cosa ci fa uno straniero in questa città sperduta? - continuò l'uomo.
L'aria all'interno si fece altrettanto gelida quanto lo era all'esterno.
- Lavoro. -
- Che genere di lavoro può portare un baldo giovane a Westmoth? Uno come lei dovrebbe andare a Buckingamshire o nella contea di Derbyshire. Di certo non qui, un agglomerato di case che non è nemmeno segnato sulle carte. -
- Sono venuto per pulire la città dalla spazzatura. - rispose secco.
Percepì un movimento alle sue spalle, ma non si voltò. Socchiuse appena le palpebre e continuò a bere.
L'oste aggrottò le sopracciglia.
- Beh, allora avrai molto lavoro da fare. Questa città è piena di merda fino ai tetti. - scoppiò in una grassa risata e prese a lavare un boccale scheggiato.
- Potrei cominciare da questa locanda. - sibilò.
Fissò i suoi occhi in quelli dell'altro, mentre un sorriso sgradevole gli stirava le labbra. Poi si girò di scatto e afferrò il pugno di uno dei tre clienti, avvicinatosi di soppiatto alle sue spalle. Rapido, Alan gli sferrò un calcio in pieno stomaco, mandandolo a terra. Gli altri due e il locandiere rimasero di stucco, straniti dai riflessi fulminei di quello straniero. Poi, lentamente, i loro corpi si iniziarono a trasformarsi, la pelle si tese e si spaccò, lasciando uscire quattro braccia scarnificate. Uno di loro ruggì, mostrando una chiostra di denti affilati. Un secondo più tardi, Alan sentì distintamente il fiato fetido dell'oste sul collo, ma non si scompose.
- Stupito, Slayer? - gli sussurrò.
Il tanfo di putrefazione gli fece storcere il naso. Un rivolo di bava della creatura gocciolò sul mantello, imbrattandogli anche il farsetto bianco. Gli altri mostri sghignazzarono e gli si avvicinarono.
- Per caso lo Slayer ha paura? - lo schernì uno dei mostri, - Guardate, non parla più! -
- Quelli della Dogma devono essere davvero disperati. - continuò un altro, umettandosi le labbra famelico, - Mandare un giovane così inesperto... devono essere davvero agli sgoccioli. Sta' tranquillo, ti mangeremo in fretta. -
Tutti scoppiarono a ridere.
- Finalmente un po' di carne fresc... -
L'ultima parola venne troncata a metà. La spada del giovane stridette nel fodero e la luce fioca delle candele balenò sulla lama. La creatura alle spalle di Alan aprì la bocca, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono. Improvvisamente la testa del locandiere cadde come una palla sul bancone e rotolò giù, ai piedi dell'umano. Le altre creature trattennero il respiro, colte di sorpresa, ma pochi istanti più tardi, in un impeto di rabbia, gli si scagliarono addosso. Alan scartò di lato e descrisse un ampio arco con la spada. La lama fendette l'aria e aprì uno squarcio dalla gola fino alla fronte del secondo mostro. Il sangue zampillò fuori, imbrattando il pavimento sudicio. Il terzo balzò in aria, le fauci spalancate e gli artigli protesi verso di lui, e il quarto lo caricò a testa bassa come un toro inferocito. Alan indietreggiò e scartò di lato. Il colpo del mostro si infranse contro il bancone e il legno esplose in migliaia di schegge, poi la spada d'argento del cacciatore si abbatté sul suo collo, lacerando pelle, carne e ossa con disarmante facilità, e il sangue esplose in una cascata scarlatta. Allora Alan arretrò, frapponendo una distanza di sicurezza tra sé e l'ultimo rimasto. La creatura si voltò verso di lui, furiosa, il volto sporco di perle vermiglie, ma indietreggiò scrutandolo con estrema attenzione, consapevole che sottovalutare quello Slayer avrebbe potuto rivelarsi fatale.
- Bastardo! -
Snudò le zanne e ripartì all'attacco. Alan attese finché non fu a meno di un metro. In seguito, con un gesto fluido e letale, si abbassò e menò un ampio fendente. Le ossa del torace del mostro cedettero di schianto e un urlo inumano riecheggiò tra le mura della locanda.
- Figlio di puttana! Schifoso umano! - ringhiò, - Ti ucciderò! Ti ucciderò! -
L'essere si dimenò, si contorse, allungò minacciosamente le sue quattro braccia verso di lui, mentre la pozza scura sul pavimento si allargava sempre di più. Alan lo fissò per alcuni istanti, poi con un unico colpo affondò la spada fino all'elsa. La estrasse dopo un paio di secondi con una torsione brusca del polso e in tutta calma la rinfoderò, senza mai distogliere lo sguardo dal cadavere riverso ai suoi piedi. Non che temesse chissà cosa, ma voleva evitare spiacevoli sorprese. Infine raccolse la testa dell'oste, la infilò nel sacco di iuta che portava appeso alla cintola e uscì.
La campanella della porta lo salutò e nella locanda calò un silenzio di tomba.***
Il sindaco della città di Weastmoth fissò terrorizzato il sacco che Alan aveva delicatamente riposto sul suo bellissimo tavolo di legno di ciliegio. Il sangue rappreso aveva lordato la superficie e adesso sgocciolava con un ticchettio attutito sul suo elegante e costosissimo tappeto. Quando le guardie avevano annunciato che lo Slayer era tornato, aveva strabuzzato gli occhi, completamente spiazzato, visto che non ci avrebbe scommesso nemmeno un raie che quel ragazzo sarebbe ricomparso sano e salvo. E con la testa di un mostro attaccata alla cintola, per giunta.
- To-togli immediatamente quella... quella cosa dalla mia vista! - sbraitò isterico.
Il doppio mento ballonzolò, dandogli un aspetto ancor più ridicolo e spaventato.
- Guardie! Sbarazzatevene immediatamente! -
Una delle guardie corse al tavolo e, cercando di non far caso al suo contenuto, portò via il sacco.
- E... e tu? - biascicò poi il sindaco con voce tremante all'indirizzo del cacciatore, - Cosa ci fai ancora qui? Sparisci! -
Alan scrollò le spalle e sospirò. Adesso non aveva più né il cappuccio a coprirgli il volto né le sue armi appese ai foderi sulla schiena, dal momento che i soldati gli avevano proibito di portarle con sé davanti a quell'uomo.
Con noncuranza tirò fuori una pergamena sgualcita dal farsetto e gliela porse dicendo: - Qui dice che promettevate trecento raie a colui che avesse eliminato gli Sventratori. -
Il sindaco strinse con le dita i bordi del tavolo, talmente forte da far sbiancare le nocche. Un leggero tremore continuava a scuoterlo, ma adesso sembrava essersi calmato, almeno un po'.
- Quindi sei qui per riscuotere la ricompensa, eh? -
Alan tacque, ma continuò a sostenere il suo sguardo senza timore. Le sue iridi verdi non tradivano alcuna emozione.
- Voi, schifosi, patetici Slayer. Non fate mai niente se non dietro compenso. -
- Nella vita non si fa niente per niente, no? - gli rispose per le rime.
L'altro grugnì e balbettò qualche insulto a mezza voce. Poi si alzò e, barcollando sulle gambette grassocce, si diresse verso l'immensa libreria alle sue spalle. Scrutò con attenzione i tomi sugli scaffali, ne estrasse alcuni e scoprì una cassaforte incassata nel muro. Allungò la mano e girò la rotella nelle giuste combinazioni, finché la pesante porticina di metallo non si aprì. Tirò fuori un pesante sacchetto blu scuro e, dopo essere tornato al suo posto, cominciò a contare le monete ivi contenute.
- Allora, sono duecentocinquanta raie, giusto? -
- Trecento. - lo corresse Alan.
Il sindaco ghignò: - Ricordo perfettamente di aver scritto che avrei pagato trecento raie solo se avessi ucciso gli Sventratori e riportato indietro la gente che avevano rapito. Non ti meriti tutti questi soldi. -
Negli occhi dello Slayer brillò una luce ferale, un baluginio crudele che gli fece accapponare la pelle.
- Non ho salvato nessuno perché non c'era nessuno da salvare, vostra Eminenza. - replicò serio, poi si accostò di più alla scrivania e piegò il busto verso quell'ometto sgradevole, - Ma, se vuole, posso portarvi con me a scoprire che fine hanno fatto tutte le loro vittime... giusto per accertarsi che quello che dice questo miserabile Slayer sia la verità. -
A quelle parole, il sindaco trattenne il fiato, mentre un gocciolina di sudore scendeva ad imperlargli la fronte. Il panciotto, che a malapena conteneva la sua strabordante pancia, si tirò ancora di più, tanto da dare l'impressione che presto i bottoni sarebbero saltati via dalle asole.
- Allora? Desiderate venire a controllare? - insisté.
- No! No, no, no, no! - esclamò e quasi gli gettò addosso il sacchetto delle monete, - Tieni! Prendi i tuoi soldi e vattene! -
Alan fece un leggero cenno di saluto col capo e poi uscì dal municipio. Non appena mise piede sulla strada maestra, respirò a pieni polmoni l'aria fredda del tardo mattino e sbadigliò. La sera addietro la caccia era stata proficua, ma aveva preso alloggio alla locanda di Mama Yaga molto tardi e aveva dormito poco. Non che avesse bisogno di molte ore di sonno, ma avrebbe voluto godersi quelle poche che aveva a disposizione. Invece era stato costretto a sorbirsi le urla e i gemiti della coppia nella camera adiacente. In tutti quegli anni trascorsi a girovagare per il mondo si era dimenticato quanto fossero sottili le pareti della "Dama di Corte". Inoltre, aveva dovuto lasciare lì Brunilde, visto che nel luogo dove era diretto ci si muoveva meglio a piedi. Piu tardi sarebbe andato a recuperarla e avrebbe ringraziato Mama Yaga della sua gentillezza con qualche moneta in più.
Passeggiando per le vie, notò che rispetto al giorno prima la città pareva più popolata. I contadini camminavano trascinandosi dietro dei muli, che a loro volta trainavano carri carichi del frutto del lavoro nei campi, mentre i mercanti si prodigavano per mettere in mostra i prodotti che speravano di vendere. Ogni tanto lo scoppiettante rumore del motore di qualche auto si mescolava al vociare delle persone e alle risate dei bambini, oppure l'ombra di grandi mongolfiere oscurava il cielo, strappando ad alcuni passanti un sorriso e uno sguardo sognante. A Weastmoth tutti covavano il desiderio di andarsene, lasciandosi alle spalle l'arretrata contea di Corkia, che per qualche motivo ignoto si ostinava a non accettare le nuove tecnologie.
Alan sorrise al ricordo di quando anche lui immaginava la propria vita al di fuori di quel buco. Si era ripromesso di non rimetterci piede mai più, nemmeno se la Dogma gli avesse detto che un'orda di mostri stava per falciare via tutti i suoi abitanti. Era quasi comico ora pensare che aveva deciso di tornarci di sua spontanea volontà.
Proseguì fino alla fine della strada e imboccò un viottolo secondaria, che procedeva in salita e terminava con una rampa di scale scolpita direttamente nella pietra. Salì rapidamente e si immise in un'altra via, dove l'acciottolato era molto più curato e soprattutto molto meno sporco. Le case dipinte di bianco, con graziosi portoni di pesante legno di frassino e quercia, parevano appartenere a un altro mondo. Stonavano se messe a confronto con gli edifici diroccati e cadenti del resto della città, o forse sarebbe stato meglio pensarla al contrario. Ogni tanto, dalle finestre decorate a festa o dai giardini innevati, qualcuno lo fissava con palese disprezzo, soffermandosi ad osservare i suoi stivali sporchi di fango e i suoi abiti logori. Poi, però, quando scorgevano l'effige del grifone sulla spilla del mantello, distoglievano velocemente lo sguardo: a nessuno piaceva avere a che fare con gli Slayer.
Dopo dieci minuti di cammino Alan giunse innanzi alla villa che gli interessava. Salì in fretta i quattro scalini e bussò, facendo sbattere tre volte il pesante battente in ottone. Il fragore si riversò all'interno dell'abitazione e il cacciatore rimase in attesa, le orecchie tese a captare anche il più lieve rumore. Dopo un paio di minuti udì dei passi decisi avvicinarsi, seguiti da un leggero frusciare, e la porta si aprì. Sulla soglia apparve una donna dai lunghi capelli biondi raccolti in un'acconciatura elaborata e il viso affilato dai tratti aristocratici. Aveva il corpo fasciato da un aderente abito orientale e mani e polsi adornati con anelli e bracciali preziosi.
Non appena lo vide, storse il naso e aggrottò le sopracciglia, come se cercasse di ricordare qualcosa d'importante.
- Tu sei...? - balbettò incerta.
- Buongiorno, Frejie. -
A quelle parole, il suo viso si illuminò e schioccò le dita contenta: - Oh, ma guarda, quasi non ti riconoscevo! Finalmente! Ci hai messo un secolo. Stavo per darti per disperso. -
Alan scrollò le spalle e si limitò ad annuire.
- Ma entra! Meglio che i vicini non sentano i fatti nostri. - si voltò e gli intimò in silenzio di seguirla.
Nel momento in cui lo Slayer varcò la soglia, due guardie chiusero il portone con un assordante cigolio di cardini.
La villa era avvolta dalla luce soffusa di candele e candelabri ed era difficile distinguere i contorni dei mobili e degli oggetti nelle zone che rimanevano in ombra. Mentre seguiva la donna attraverso il corridoio, Alan scorse due alte librerie alla sua sinistra e almeno una decina di quadri appesi sulle altre pareti, più che altro volti di uomini e donne dei tempi che furono. Si domandò che bisogno ci fosse di tenere i ritratti dei propri antenati in casa, visto che occupavano spazio utile, ma tenne i suoi pensieri per sé. In fin dei conti, non era giunto lì per sindacare sui gusti della padrona di casa.
- Allora, Alan, a cosa devo la tua visita? -
La donna spalancò una porta alla fine del corridoio ed entrò in quello che lo Slayer ricordava essere il suo studio. Era una stanza molto ampia, con una pesante scrivania al centro colma di alambicchi, pergamene e decine di vecchi tomi impilati gli uni sugli altri. I candelabri posti ai quattro punti cardinali illuminavano la stanza, gettando dei bagliori aranciati sul grande pentacolo disegnato sul pavimento e sui dorsi dei libri consunti. Si sedette su una poltrona di pelle dietro il tavolo da lavoro e lo invitò ad accomodarsi di fronte a lei.
- Lo sappiamo entrambi che non sei tornato solo per salutare. - ammiccò.
Si mise a giocherellare con una ciocca ribelle e accavallò le gambe, fissandolo con uno sguardo divertito.
- Innanzitutto, ti ringrazio per avermi ricevuto, Frejie. Per quanto riguarda il motivo della mia presenza qui, dovresti già esserne al corrente. Cerco delle informazioni. -
- E da quando mi chiami per nome? - lo interrogò infastidita.
- Da quando mi avete confessato di odiare il vostro titolo nobiliare, se non sbaglio. -
Frejie afferrò una pergamena e fece finta di leggere le rune ivi vergate con una calligrafia elegante.
- Erano altri tempi, Alan, ora ho imparato ad accettare il mio rango e le responsabilità che da esso derivano. - gli lanciò un'occhiata tagliente, - Perciò, gradirei mi chiedessi prima come voglio essere chiamata. -
Lo Slayer annuì. Era inutile discutere, ci avrebbe solo rimediato un paio di ossa rotte e molte contusioni.
- Bene. - la donna sorrise soddisfatta e si stiracchiò, - Ricominciamo. Perché sei tornato? -
- Cerco delle informazioni... - prese un respiro profondo, - Contessa Frejie Lucisla Barazethai. -
- Oh, ma non ti scomodare. - mosse la mano come per scacciare una mosca fastidiosa, - Chiamami semplicemente Frejie. -
Alan fissò la sua attenzione sulla sfera di cristallo davanti a sé, cercando di controllare il moto d'irritazione che lo aveva pervaso. Parlare con lei a volte era un logorante esercizio di pazienza.
- Comunque, cosa ti dice che io le abbia? -
- Voi maghi non vedete tutto con le vostre palle di cristallo? -
Frejie storse le labbra e incassò in silenzio, poi poggiò il viso sulle mani e si protese verso di lui.
- Prima fammi vedere l'emblema degli Slayer, ho sempre desiderato guardarne uno da vicino. Dopo vedremo se avrò ancora voglia di aiutarti. -
Alan sbuffò. Si tolse il mantello e le porse la spilla dorata con sopra inciso un grifone. Frejie se lo rigirò tra le dita, studiandolo con attenzione.
- Sai, non avrei mai detto che alla fine saresti diventato un cacciatore di mostri. Con il fisico gracile che avevi e quel viso smunto non mi sembravi per niente adatto a quel lavoro. -
- Sono contento di avervi sorpresa. -
Un'espressione contrita le si dipinse sul viso e con malagrazia gli restituì l'emblema.
- Ci avrei visto meglio Eluaise in questo ruolo. Tra voi due era quella più portata. A proposito, come sta? Da quando se n'è andata non ho più avuto sue notizie. -
Prese un calice e si versò del vino. Un intenso profumo fruttato si librò nell'aria.
Alan fissò i movimenti eleganti della maga. Osservò le labbra carnose appoggiate al bordo argenteo del calice, le iridi violacee, le sopracciglia leggermente più scure dei capelli, distese e rilassate, e il collo sottile adornato da preziosi monili. Lui e Frejie erano stati amanti prima di andarsene da Weastwoth e il ricordo di quei giorni lontani era rimasto impresso nella sua memoria. Si chiese distrattamente cosa ne sarebbe stato di loro, se il suo cuore non fosse appartenuto ad Eluaise già a quel tempo, ma ritenne saggio tacere e accantonare quelle domande in un angolo del cervello. Non voleva rivangare il passato.
- Vorrei sapere anch'io che fine ha fatto. - sussurrò a mezza voce.
La maga depose il calice su un vecchio libro ed esitò, come se stesse soppesando le parole da dire.
- Cosa vuol dire? Non vi siete rincontrati a Earthshire? -
- No. - rispose secco.
- Ma come? Mastro Liam disse che lui ed Eluaise si sarebbero stabiliti lì e che ti avrebbero atteso... - improvvisamente portò una mano a coprirsi la bocca, - Aspetta, ad Earthshire... -
- Già. - Alan si slacciò la cinghia sul petto e depose spada e balestra ai suoi piedi, - Earthshire non esiste più. -
Entrambi rimasero in silenzio per alcuni istanti. Frejie si rannicchiò appena sulla poltrona, cercando di placare i brividi che le scuotevano le membra.
- Non l'hanno trovata né tra i cadaveri né tra i superstiti. - continuò lo Slayer, impassibile.
Si appoggiò allo schienale e intrecciò le dita sull'addome, lasciando vagare lo sguardo nella stanza. Parlare di quell'episodio gli faceva ancora male.
- Magari se n'è andata prima che i mostri attaccassero la città. - ipotizzò, ma il giovane ospite poteva scorgere chiaramente l'ombra della paura e dell'incertezza nei suoi occhi color antracite.
Un mezzo sorriso si formò agli angoli della bocca, un sorriso stanco, amaro. Forse l'unico sentimento rimastogli era proprio il rimorso per non essere stato lì quel giorno.
- No, altrimenti sarebbe tornata qui. - mormorò osservando le pesanti tende di broccato alle spalle di Frejie, quelle che tante volte le aveva visto chiudere per celare a sguardi indiscreti le sue doti d'incantatrice, - Io ho un'altra teoria. -
- Ovvero? -
- Penso che non sia stata un'orda di mostri a distruggere Earthshire, ma un unico, potente mostro. -
La donna sbiancò e si irrigidì: - Quale... quale essere sarebbe capace di fare una cosa del genere con le sue sole forze? Era una città protetta, Alan, non un villaggio di contadini. Quello che dici è assurdo! -
- Assurdo o no, Earthshire non esiste più. - alzò la testa e incatenò i loro sguardi, - Ho bisogno dei tuoi poteri per rintracciare Eluaise. -
Frejie inarcò un sopracciglio e lo squadrò: - Ancora a prendermi per i fondelli? Non sono una cartomante o una strega da strada. -
Alan mise le mani avanti come per fermare il fiume di parole che stava per travolgerlo.
- Lo so che che non sei una veggente e non sono qui per offenderti. Ma so che voi maghi sapete sfruttare a vostro vantaggio le forze del cosmo. -
Lei lo scrutò sospettosa, poi si afflosciò sullo schienale della poltrona rilasciando un sospiro esasperato.
- Per fare ciò che dici ho bisogno di qualcosa che le appartiene. -
- Va bene una collana o un suo vecchio vestito? -
- No, ci vuole qualcosa che sia intimamente connesso a lei, per intenderci. Capelli, pezzi d'unghia, anche un lembo di pelle andrebbe bene. Il sangue sarebbe ottimo. -
- Capisco. - prese la spilla con l'emblema del grifone e l'aprì, srotolando una lunga ciocca rossa.
La maga sbarrò gli occhi sorpresa, ma non fece domande.
- Questa è l'unica cosa sua che posseggo. Spero ti possa aiutare. - gliela porse delicatamente, - La potrò riavere indietro quando avrai finito? -
Frejie annuì: - Farò il possibile per ridartela intatta. -
La strinse tra le dita e gli lanciò un'occhiata penetrante, ma prima che potesse aggiungere altro lo Slayer si alzò.
- Devo andare, ora. -
Si rimise le armi in spalla e con ampie falcate raggiunse la porta dello studio.
- Alan! -
Egli si bloccò sul posto. Aveva già indossato il mantello e lo sguardo era celato del cappuccio, ma Frejie conosceva quegli occhi gelidi meglio di chiunque altro.
- C'è qualcosa che non mi hai detto. - il tono interrogativo che aveva pensato di dare alle proprie parole sfumò in quello deciso di un'affermazione.
La donna si maledì per la propria morbosa curiosità, ma c'era stato qualcosa nei suoi gesti e nel tono di voce monocorde che non l'aveva convinta.
- Ci vediamo, Frejie. - rispose atono lo Slayer, per poi scomparire nel corridoio buio.
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Slayers
Fantasy[Primo libro della saga 'Slayers'] [Ispirato a Claymore, Devil May Cry e The Witcher] La Dogma e la Chiesa, le colonne portanti di questo mondo. L'una che agisce con il favore dell'ombra, chiamando a raccolta i suoi cacciatori, gli Slayers, per comb...