Quarto anno di università, necessità di finire gli studi il prima possibile, anzi desiderio implacabile di allontanarsi da quel luogo di studi matti e di iniziare a lavorare. Avevo desiderio di raggiungere una certa autonomia economica, volevo indipendenza a livello di soldi e per fare ciò dovevo resistere in università ancora un anno e mezzo, poi avrei fatto su le mie valige e me la sarei data a gambe levate.
Per fare ciò dovevo prima fare uno stage, un benedettissimo stage che mi avrebbe aperto le porte del paradiso, trascinandomi via da quell'inferno.
Amavo la mia università? Non più di tanto, cioè ero stufa di girarvici all'interno come un'anima in pena.
Avevo passato mesi a cercare uno stage, quando sapevo benissimo che con un semplice schiocco di dita mio zio me l'avrebbe fornito, ma io ero sempre stata ostinata e avevo voluto fare da sola. Lo ammetto, ero complicata, cercavo un certo tipo di stage che non era semplice da trovare o non era facile essere presi. Avevo tirato così tanto la corda che mio zio si era stufato e me lo aveva procurato lui stesso. Detestavo essere aiutata, avevo un estremo bisogno di essere autosufficiente, perché nella mia vita difficilmente lo ero stata e pesare ancora all'età di 23 anni mi infastidiva.
In verità mio zio non aveva detto granché su dove avrei fatto il mio tirocinio, sapevo solamente che sarei andata a Torino per sei mesi.
Quel disgraziato non aveva voluto dirmi alcunché, affermando più volte che sarebbe stata una sorpresa. Così, inconsapevole di ciò a cui stavo andando incontro avevo preso il mio treno, avevo passato la mia ora e mezza di viaggio ad ascoltare musica e giunta a destinazione ero scesa.
In quel momento mi trovavo sola, nel centro della stazione di Torino, senza la più vaga idea di dove andare, cosa fare. Non mi era stata data alcuna informazione su dove mi sarei dovuta recare o per lo meno chiedere qualche delucidazione. Niente di niente e, infatti, ero ferma immobile, mentre le persone mi sfrecciavano affianco, trolley alla mano, passo svelto verso la loro metà. Solo io sembravo incapace di agire. Mi guardai attorno ancora un po' e poi decisi di muovermi verso una delle innumerevoli uscite, quella che dal nome mi ispirava di più. Mentre stavo maledicendo mentalmente mio zio, quello sciagurato, mi imbattei in un uomo sulla cinquantina. Era in giacca e cravatta nonostante fossimo agli inizi di Agosto e il caldo fosse a dir poco soffocante. Mi si parò di fronte, rivolgendomi un sorriso affabile.
-La signorina Antea Gautier? Mi manda suo zio, Eustace Gautier, signorina. -
Lo guardai qualche istante per poi ricambiare quel radioso sorriso ed annuire convinta.
-Sono Alessandro De Bassi e l'accompagnerò prima al suo appartamento e poi alla sede del suo lavoro. -
Il sorriso passò da rassicurante a dispettoso, come se stesse tramando qualcosa alle mie spalle. Sapevo bene che era mio zio quello da temere e non di certo quel poveruomo. Era alle dipendenze di quel pazzo di Eustace. Effettivamente un uomo con quel nome non poteva che essere cresciuto con un filo di pazzia, dopotutto i suoi genitori (i miei nonni) erano stati un tantino crudeli. Non che il mio nome fosse ordinario, ma sicuramente non potevo di certo lamentarmi, a differenza sua. Seguii l'uomo, cercando di cavare qualche informazione su dove mi stesse portando, in tutta risposta mi disse che avessi continuato a domandare avrebbe risposto con un silenzio assordante. A quel punto, compresi che non sarebbe stato il caso di proseguire nell'interrogatorio e me ne rimasi zitta e buona.
Prima tappa: spazioso appartamento in una zona di Torino che non conoscevo. Era accogliente e davvero lussuoso, tipico di mio zio. Lasciai in fretta le mie cose e poi proseguii scortata da De Bassi.
Seconda tappa: sede della Juventus, corso Galileo Ferraris 32. Il mio cuore perse un battito, poi due, pensavo sarei morta di lì a poco.
Ero ferma immobile davanti all'entrata, con il Signor De Bassi che mi spronava ad entrare, nonostante io rimanessi impiantata lì.
Chiunque avrebbe dovuto fare i salti di gioia, non io, non dopo tutto quello che era successo.
Mio zio sapeva bene che segretamente seguivo ancora i risultati della Juventus, che in cuor mio gioivo delle sue vittorie. Ma dal fatidico giorno, ossia il 29 agosto 2014, non ero più stata in grado di guardare anche soli pochi istanti di alcuna partita di calcio, figuriamoci quelle della vecchia Signora. Il mio cuore era ancora troppo fragile per poter reggere ed io non avevo intenzione di piangere più, sebbene il dolore fosse ancora vivo e la ferita non si stesse minimamente cicatrizzando.
Eppure mio zio evidentemente voleva che affrontassi quella sfida e che per colpa del destino non rinunciassi a ciò che era stato il mio sogno più grande: lavorare per una società calcistica. Sogno che avevo abbandonato, rinchiuso in un cassetto con un lucchetto subito dopo la morte dei miei genitori e di mio fratello, giovane promessa del settore giovanile del Milan.
Fu ridestata da quei nefasti e dolorosi pensieri dal Signore De Bassi, il quale mi esortò ad entrare e a conoscere i miei datori di lavoro.
Mi venne spiegato cosa dovessi fare, quale tipo di ricerche dovessi attuare e soprattutto compresi che mi sarei occupata di contratti. Avrei speso anche parte delle mie giornate perché in casa Juve il lavoro doveva essere anche una passione e io dovevo conoscere lo staff, calciatori ed essere di aiuto anche a loro. Sinceramente mi chiedevo come potessi essere loro d'aiuto, ma lo avrei scoperto in fretta.
Ciò che meglio avevo compreso da quella giornata intensa era che avrei dovuto tenere a bada le emozioni, evitare di mostrare quanto mi pesasse quel contatto con quella gloriosa società e lavorare sodo. Sì, se avessi lavorato sodo avrei messo da parte il dolore.
Con quella consapevolezza, dopo essere tornata nel mio appartamento e aver cenato, mi addormentai profondamente.Note autrice: entrerò nel vivo della storia dal prossimo capitolo. Spero vi sia piaciuto questo intro 😁
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Il calcio non ha nessuna verità, nessuna legge.
FanfictionFan fiction su Álvaro Morata