C h a p t e r • o n e

159 10 11
                                    

Erano sette anni ormai che si ripeteva sempre la stessa storia. La mattina, sempre puntuale alle otto, mi trovavo davanti il cancello della scuola con i miei amici, intenti a chiacchierare di qualche nuovo ragazzo appena arrivato in città.

Non appena il grande cancello verde si apriva, tutti entravano e si disperdevano nei corridoi alla ricerca del proprio armadietto; tutti tranne Lui.

Lui rimaneva fuori ad aspettare chissà cosa. Era immobile seduto sul muretto, sempre con una sigaretta tra le mani, a guardare la gente che passava.

Non appena tutti si allontanavano, mi sedevo di fianco a lui, lo chiamavo, gli picchiettavo sulla spalla, gridavo il suo nome a squarciagola ma niente, non poteva più sentirmi, non poteva percepire le mie dita scheletriche  sulla spalla.

Quando esauriva la sua sigaretta entrava e si dirigeva direttamente in classe, ormai avevo imparato il suo orario a memoria.

Quella mattina, come tutti i martedì, a prima ora aveva letteratura. La mia materia preferita... Quando potevo studiarla.

Era come al solito seduto all'ultimo banco, intento a lanciare palline di carta alla bionda davanti. Io ero seduta vicino, nel banco vuoto.

Così passavano le ore, i giorni, i mesi, gli anni.

Io gli stavo vicino, come un bambino alla sua mamma, ma lui non si accorgeva minimamente della mia presenza.

Quando tornava a casa era la stessa storia. Era un caso che quando attraversava non passavano mai macchine?
Era un caso che quando passava sotto gli alberi non cadevano mai foglie o rametti?
No.
Io ero sempre con lui.

Lui? Come se non ci fossi.

Ormai abitavo a casa sua. Mi sopportavo i suoi amici, le sue "amiche", le feste sempre troppo rumorose del sabato sera.

A pranzo cucinava solo per se stesso, il letto era solo suo, le chiavi di casa solo per lui. Tutto era solo suo.

E di mio? Cosa c'era di mio? Non lo so.

Certo, era come se non ci fossi, ma le nostre foto di quando eravamo bambini rimanevano sempre sulla sua scrivania. Non le guardava spesso, a volte le additava come distratto, ma mai, che io mi ricordi, si era mai fermato un attimo a guardarle, a pensarmi.

Però, io lo sentivo, lo sentivo che la sera, prima di addormentarsi, mi chiamava, «Ovunque tu sia, piccola, spero tu stia bene. » diceva.

Allora io gli andavo vicino, lo abbracciavo, gli sussurravo che stavo bene, gli asciugavo la lacrima solitaria che, ogni sera, solcava il suo viso perfetto.

Ma non poteva sentirmi.
Nessuno può sentire i morti.

Ghost  |z.m.|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora