La Strada Migliore

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Ad Abu Dhabi ho solo il tempo di scappare da un aereo all'altro girando in questo aeroporto. Incenso, profumi speziati, mandorle tostate, caffè e pollo fritto: gli odori si alternano uno dietro l'altro mentre cerco il mio gate in questo scalo affollato. Muscat, Oman, destinazione finale. Almeno del viaggio in aereo.

"È ora che scegli la tua strada". Gibbs mi aveva detto solo questo, al termine dell'ennesimo caso che mi aveva lasciato un segno ancora più profondo. Ormai sembrava che ogni caso fosse qualcosa di personale e perdevo sempre più lucidità, invece di riacquisirla. Anzi, perdevo me stesso. O forse mi ero già perso e dovevo ritrovarmi. "Scegli la tua strada". Gibbs non parlava tanto, bastava una frase a farti capire tutto e lo sguardo con cui l'accompagnava. Non c'era bisogno di spiegazioni a quello che diceva.
Non sapevo se questa era la mia strada, ma era una strada, una strada diversa. Mi faceva male percorrerla, perché stavo lasciando le persone più importanti della mia vita, ma finalmente tornavo a respirare.
Li avevo messi in pericolo tutti con il mio comportamento: avevano sparato a McGee e solo perché io non ero stato abbastanza concentrato in quello che facevo. Era andata bene, ma poteva essere una tragedia. Gibbs non disse niente. "Vai a casa, ci vediamo domani" e quel suo tono calmo, quasi gentile, mi preoccupò più di una sua sfuriata. Non fu più nulla come prima. Non tra me e lui, che anzi, più di una volta mi aveva ripetuto che non era colpa mia, ma tra me e me stesso. Non potevo accettare che per i miei turbamenti le persone più importanti della mia vita fossero in pericolo. Se le persone più importanti della mia vita, alla mia età, erano i miei colleghi, solo i miei colleghi, vuol dire che qualcosa non andava. Non potevo cambiare la mia vita se prima non ritrovavo me stesso e allontanarmi da tutto mi sembrava l'unica soluzione possibile. Agii d'istinto, come sempre avevo fatto, c'era chi diceva che l'istinto era una delle mie qualità migliori. Agii da DiNozzo, senza pensare troppo alle conseguenze ed accettai la proposta.

Ora sono a bordo di un aereo, seduto tra due uomini arabi, molto distinti ma così diversi tra loro. Entrambi vestiti di bianco, ma uno con un candido velo con i lembi arrotolati sul cordino nero, pizzetto ben curato, lineamenti morbidi: Rolex, occhiali da sole di Gucci nel taschino, gemelli ai polsi, scrive qualcosa con la sua Montblanc su un foglietto.
Dell'altro, seduto vicino al finestrino, la prima cosa che si nota è il turbante dalle sfumature viola e verdi avvolto sulla testa a formare un nido, il vestito è più semplice, ma da un pennacchietto che scende dal collo proviene un profumo buonissimo, di sandalo, muschio e incenso. I suoi lineamenti sono più marcati, quasi duri, tiene lo sguardo basso anche quando l'hostess orientale, molto carina, gli passa una salvietta rinfrescante. Ringrazia timidamente mentre l'altro più sfrontato, lo vedo squadrarla bene mentre torna indietro soffermandosi sul fondischiena e si lascia scappare un ghigno beffardo, come avrei fatto anche io, qualche tempo fa.
Non potrebbero essere più diversi questi due arabi, ma lo avrei scoperto presto, gli omaniti sono così: timidi, riservati ma di gran cuore. Sono meno sfacciati dei loro "cugini" degli emirati: non ostentano ricchezze e lusso.
Quando pensa che non mi accorgo, vedo che mi guarda, curioso. Poi mi chiede se andavo a Muscat in vacanza.
"Lavoro" rispondo, tenendomi sul vago.
Mi da il benvenuto nel suo paese e mi dice che se avrò la possibilità dovrò assolutamente andare a vedere dei posti che mi elenca, felice di spiegarmi le bellezze del suo paese. Ne parla orgoglioso.

Scendiamo. L'aeroporto è molto più piccolo e la fila alla dogana enorme. Vedo un uomo con un cartello "Mr Anthony DiNozzo" mi avvicino. È basso, ha gli occhiali, un turbante sulle tonalità del blu. Mi da il mio visto e mi accompagna ad un desk senza fila.
Il doganiere controlla il mio passaporto, storce un po' la bocca quando vede i visti di Israele e lo faccio anche io scuotendo la testa per far scivolare via ricordi lontani che ancora bruciano.
Mette un timbro, scrive qualcosa e mi saluta cordialmente.

Appena arrivo ai nastri dei bagagli, trovo Il piccolo uomo che si chiama Jamal, sorridente, che mi chiede quali sono i miei: glieli indico e non faccio in tempo a prenderli che lui si è già caricato i miei trolley e sta andando verso l'uscita, facendosi strada tra gli indiani che sono ovunque. Altro metal detector. Altri indiani che si abbracciano, si salutano, piangono e urlano. Stride la loro teatralità con la compostezza dei locali.

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⏰ Ultimo aggiornamento: May 15, 2016 ⏰

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