Parte senza titolo 2

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La prima sensazione che percepì quando riprese conoscenza, fu quella di avere ogni osso del corpo dislocato in posizioni inconsuete. Si trovava sdraiata a terra, con gli occhi incollati dalle lacrime che evidentemente aveva prodotto durante l'atroce sofferenza che era stata il viaggio. Ma era viva! Ce l'aveva fatta a uscire da quell'inferno, e al ritorno avrebbe preso la metropolitana, senza alcun dubbio. Con gran difficoltà, scollò le palpebre per poi richiuderle immediatamente, accecata dalla luce del sole, troppo forte per essere artificiale. Decise di occuparsi prima di braccia e gambe che non davano segni di volersi muovere: lentamente, cominciando dalle dita, riuscì a smuovere i muscoli. Sotto i polpastrelli, avvertì del materiale simile a erba. A Theg sono più avanzati di noi, pensò. Senti com'è realistica. Mosse le braccia e finalmente riuscì a mettersi seduta. Il terreno era umido e le aveva bagnato la schiena. Una strana sensazione di disagio iniziò a impossessarsi di lei man mano che si stupiva della realisticità di ciò che toccava. Terra, rametti, piccoli sassi.

Con cautela, proteggendosi con una mano, riaprì gli occhi e mise a fuoco l'ambiente circostante, pentendosene immediatamente. Ciò che vide la mandò in panico: non grattacieli, bensì alberi. Un ruscello al posto delle passerelle pedonali, grossi animali a quattro zampe che si cibavano vicino a un grosso masso ricoperto di muschio. Pettirossi chiassosi che si rincorrevano di ramo in ramo. Vir cominciò a tremare, rendonsi finalmente conto di non essere entro il perimetro di una metropoli.

"No... no... no no no!" urlò, con voce rauca. "E' uno scherzo, un dannatissimo scherzo! Hey! Hey tiratemi fuori di qui, non è divertente. Hey!" disturbati, gli animali si allontanarono pigramente ma, a parte loro, non ci fu altro segno di movimento nella radura. Nessuna telecamera o presentatore vestito da pinguino, nessun riproduttore olografico né tantomeno una pulsantiera di configurazione. Vir era sola nel mondo esterno, il mondo dei Selvaggi.

Questa consapevolezza la fece tremare ancora più forte. Si mise a piangere, rannicchiandosi con la testa tra le ginocchia e dondolandosi. Si sforzò di pensare ma tutto quello a cui riusciva a pensare erano i modi orribili che avevano i Selvaggi di uccidere le persone. I resti che venivano ritrovati durante le spedizioni dei militari mostravano tutto fuorché clemenza o religione: ossa frantumate, pelle bruciata, cadaveri senza occhi o genitali. Le venne la nausea, e vomitò. Si sentiva così lontana da casa, così persa: non aveva idea di cosa avrebbe dovuto fare ora che si trovava sola in quel luogo ostile. A scuola, mai nessuno le aveva insegnato la sopravvivenza; come conseguenza, non avrebbe saputo nemmeno come distinguere un frutto velenoso da uno commestibile, costruirsi un riparo, orientarsi con le stelle. Poi si ricordò di avere un dispositivo di collocamento installato sotto la pelle, e il sollievo le si irradiò per tutto il corpo sciogliendo i muscoli contratti dalla paura. Decise che avrebbe aspettato i soccorsi cercando di sopravvivere il più a lungo possibile, dunque si guardò intorno in cerca di un riparo e del cibo.

L'acqua era potabile? E quelle bacche dai colori vivaci, le avrebbero fatto male allo stomaco? Sarebbe morta di sete, di fame o di indigestione, pensò, quindi poco importava. Si fece coraggio e gattonò fino al ruscello per abbeverarsi. L'acqua era fresca e con un forte retrogusto metallico, tuttavia si sentì subito meglio. Le labbra le si erano screpolate, il che le fece capire di essere stata svenuta per qualche giorno, esposta alle intemperie. Se i Selvaggi non l'avevano trovata finora, non l'avrebbero trovata di certo prima dell'arrivo dei soccorsi, pensò. Si sentì ottimista e trovò le forze per alzarsi in piedi. Passo dopo passo, raggiunse una grossa quercia le cui radici, sporgendo dal terreno, formavano una specie di incavo dentro alla quale si sarebbe sentita protetta almeno da 3 lati. Vi si sistemò sgranocchiando le bacche dal sapore aspro e dolciastro, poi aprì la sacca da viaggio e ne tirò fuori la macchina per gli ologrammi. Compose il codice per chiamare a casa ma l'unica immagine che comparve fu quella del logo del prodotto accompagnata dalla voce di servizio che avvisava che si era in un'area irraggiungibile dai satelliti nazionali.

"Al diavolo!" esclamò ritirando l'oggetto. Con la mente, si mise a ripercorrere le pagine di libri di storia che aveva divorato in biblioteca, ma non vi trovò alcun indizio utile. Non vi era nulla riguardo le civiltà pre-belliche, perciò le era impossibile sapere dove trovare dei vecchi tubi di ferro arrugginito che, si diceva, avevano trasportato per miglia l'ultimo vagone carico di giovani nel punto in cui ora sorgeva Luxa. Si chiamava treno. Ma come poteva trovare i segni del suo passaggio, se da una parte c'era un fitto bosco e dall'altra il dolce pendio di una collina? Vir avrebbe voluto salirci per avere una visuale più ampia, ma allo stesso tempo temeva di esporsi agli sguardi dei Selvaggi appostati chissà dove. Si rimise a ragionare, poi d'un tratto si illuminò: poteva costruirsi un'arma per difendersi!

Entusiasta, prese dalla borsa il coltello che le aveva dato sua madre e iniziò a cercare nei dintorni un ramo con le giuste caratteristiche per diventare la sua lancia, nonché bastone d'appoggio. Nei documentari aveva visto avvunterieri sperduti costruirsi armi del genere, e il risultato ottenuto le piacque, se non che al primo tentativo di conficcare la punta nel terreno il ramo si spezzò. Riprovò, scegliendone uno più robusto, finché non ne trovò uno abbastanza resistente da superare svariate prove contro diversi materiali. Infine, costeggiando il bosco e camminando bassa, si incamminò verso la cima della bassa collina.

Ciò che vide, o meglio, che non vide, la sconfortò profondamente: non vi era traccia delle confortanti punte di acciaio e cemento dei grattacieli tipici delle città che conosceva, in nessun punto cardinale si riusciva a scorgere niente altro che un mare composto di varie tonalità di verde, marrone e azzurro. Perlomeno, non vi erano nemmeno tracce di villaggi o accampamenti di cannibali.

Si stava facendo buio, dunque decise di trascorrere la notte al sicuro tra le radici dell'albero. Ridiscese la collina e si procurò diversi rami e foglie di grandi dimensioni per mimetizzarsi meglio e non correre pericoli con animali selvatici. Mangiò una parte della barretta energetica che si era portata dietro, si coprì bene, e solo dopo molte ore di insonnia riuscì ad abituarsi ai suoni della foresta, che la cullarono in un sonno pieno di angoscia e timore per l'indomani.

Si risvegliò all'improvviso, abbagliata da una luce danzante. Non era ancora giorno, e tra le foglie poté intravedere la luna alta sopra l'orizzonte. Le ci volle un grande autocontrollo per rimanere immobile senza fiatare non appena si rese conto di non essere sola: la luce proveniva infatti da una torcia di come ne aveva viste solo nei parchi giochi a tema, il caldo colore del fuoco che ardeva sopra un ramo inzuppato di qualche specie di carburante. Riuscì a contare cinque Selvaggi: erano vestiti con indumenti larghi, visibilmente sudici, e mimetici. Emenavano un forte odore di selvatico come quelli che aveva già avuto modo di provare nelle stalle, e dovette trattenere il fiato per non tossire. Difficile capire chi fossero gli uomini e chi le donne: tutti portavano i capelli più o meno lunghi, avevano il viso sporco di terra e, cosa spaventosa, erano armati fino ai denti di coltelli simili a quello che le aveva fornito sua madre. Vir deglutì, pregando con tutta sé stessa che i muscoli non si mettessero a tremare proprio adesso. Gli strani individui si erano fermati forse per una sosta, esattamente nel punto in cui lei nel pomeriggio si era risvegliata, ed erano quindi dannatamente vicini. Riusciva a sentirli ma non a capire le loro parole: sembrava che avessero una lingua propria. Mentre alcuni di loro si diressero al fiume per bere, uno (o una?) si avvicinò alla quercia in cerca di bastoni spezzati. Si accovacciò a qualche metro dal nascondiglio di Vir, facendosi luce con la torcia e scrutando la zona con attenzione. Così da vicino, ebbe modo di capire che si trattava di una donna abbastanza giovane: si capiva dalle esili braccia nude e dai delicati lineamenti del volto, anche se sporco. Proprio in quell'istante, Vir percepì un insetto che le zampettava sul dorso della mano: aveva sempre avuto orrore degli insetti e a Luxa le case ne erano protette. Stare nella natura, tra insetti e cannibali, era quanto di più simile a un inferno potesse mai esserci. Trattenne a stento un urlo, ma il ribrezzo le causò un brivido lungo tutta la schiena che fece muovere alcune foglie. La donna che stava cercando un bastone la sentì e puntò la torcia nella sua direzione. Passò qualche secondo prima che i suoi occhi trovassero quelli di Vir, che si pietrificò all'istante. Non sentiva nemmeno più il sangue scorrerle nelle vene. La donna strinse gli occhi in una smorfia di disprezzo o rabbia e, al richiamo dei suoi compagni pronti a ripartire, li chiuse per qualche attimo per poi andarsene. La ragazza riprese a respirare solo quando la luce delle fiaccole fu completamente svanita e i passi dei Selvaggi ormai lontani. Con estrema cautela inalò ed espirò ossigeno, grata di essere ancora viva; allungò le gambe e cambiò posizione per liberarsi dall'insetto che volò via infastidito. Era viva. Ed era più che certa che quella donna, nonostante avesse capito che non era una del posto, l'aveva lasciata vivere per qualche motivo.

Agel della tribù dei lupiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora