Parte 1

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Guardai l'orologio. Erano già le 18:00.

«Martina, posa i pennelli nell'armadietto» ordinai, mentre cercavo di non perdere di vista Gabriele.

«Greta, sono ancora bagnati!» protestò la bambina, mettendo il broncio.

Disturbo dell'attenzione. Affido esclusivo alla sorella del genitore di sesso femminile. Quattro cugini al primo grado di parentela.

Non dovevo stupirmi se il bisogno di ordine di Martina era così pressante.

Quante persone c'erano nella sua nuova casa? Sei, escluso lei, forse otto, forse venti.

Difficile stabilire con precisione i limiti di un nucleo familiare, quando la famiglia coincide con il condominio per necessità e per abitudini sociali.

E le Vele di Scampia non erano un complesso residenziale normale.

Erano l'inferno in terra.

«Signurì, Gabriele si è pigliato il mio portapastelli.»

Strinsi leggermente gli occhi, una reazione istintiva che stavo cercando di moderare da quando lavoravo come educatrice per il programma di recupero dei minori a rischio dell'Istituto Montessoriano di Scampia. Gli errori grammaticali, l'uso del dialetto, l'incapacità di scegliere un registro linguistico consono erano naturali in soggetti così giovani in un contesto culturalmente marcato.

Eppure, ogni volta che i bambini mi appellavano con il titolo di "Signurì", avvertivo nelle orecchie lo stridio delle unghie che grattavano su una lavagna.

Le mamme chiamavano così le insegnanti, aveva detto mia nonna. Ma non capitava più da ormai mezzo secolo. Non capitava a Posillipo, il quartiere della Napoli bene in cui ero cresciuta. Ma le periferie, della Napoli che conoscevo io, avevano solo il nome.

«Gabriele, restituisci il portapastelli a Salvatore.»

Usai un tono severo, anche se con Gabriele cercavo di andarci piano. Era un uomo di sette anni, mi ripetei ancora una volta, sostenendo il suo sguardo contrariato. C'era una durezza nei suoi occhi scuri che mi turbava e mi aveva strappato qualche ora di sonno negli ultimi mesi.

Nessun bambino avrebbe dovuto avere quello sguardo.

Nessun bambino avrebbe dovuto lasciar trasparire quella rabbia.

Ma Gabriele Russo non era un bambino normale, come non lo erano Martina, Salvatore e i restanti sei bambini che dopo le lezioni ordinarie venivano affidati a me per le attività di recupero e i laboratori didattici.

Gabriele rovesciò il contenuto dell'astuccio sul banco, senza smettere di fissarmi. Poi lo chiuse e lo passò a Salvatore. Metodico, pacato, impassibile.

«Non mi hai detto di restituirgli il contenuto.»

No, non ero stata specifica nella mia richiesta.

Il fiato mi si spezzò in gola e strinsi i pugni per non mostrarmi debole. I bambini, come gli adulti, riuscivano a fiutare la tensione e ad approfittarsene.

Nessuna empatia verso i coetanei. Difficoltà a stabilire un dialogo con insegnanti e assistenti sociali.

Gabriele aveva analizzato la mia richiesta e ristabilito le posizioni in meno di un secondo.

Comandava lui, era stato questo il segnale lanciato ai compagni e a me.

Cercai i suoi occhi, contrariata, ma prima di poterlo rimproverare lui mi sorrise. Una leggera contrazione del labbro a sinistra.

SANGUE AMARO di Angela D'AngeloWhere stories live. Discover now