«Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto peccato...» la voce mi si spezzò. Ripresi fiato.
«Per mia colpa» mi battei la mano sul petto con forza. «Mia colpa» ripetei, chiudendo le dita a pugno. «Mia grandissima colpa.».
Deglutii, poi continuai con la confessione stringendo con la sinistra la spalla di Gabriele.
Mio fratello.
La mia ragione di vita.
Recitai il rito, saltando le parole che non ricordavo o seguendo quelle dalla comunità della chiesa di Santa Maria della Speranza.
Mi sentivo sporco, più del solito.
«Dio onnipotente abbia misericordia di noi» enunciò il parroco.
Mi mancava l'aria.
Le parole successive le mormorai insieme a Don Gaetano, anche se non era il mio turno. «Perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna.»
L'Amen di Gabriele si sentì al di sopra degli altri.
Serrai le mascelle e abbassai il capo.
Avevo la sensazione che la vergogna mi si leggesse sul volto.
Chiusi gli occhi e lasciai che il ritmo della liturgia mi calmasse, che le voci dei bambini del coro mi consolassero.
Anche Gabriele cantava, non insieme agli altri.
Lui era seduto al mio fianco e muoveva solo le labbra.
Voleva sentirsi parte della comunità, ma non sapeva come fare. Era troppo schivo.
Gli accarezzai i capelli e avvertii un nodo alla gola.
Canta per me.
Riportai l'attenzione sulla funzione. Un'ora di normalità, di conforto.
Non chiedevo altro.
Ero a metà del Credo quando il mio telefono vibrò. La prima volta lo ignorai. Le chiamate non si interruppero.
«Esco un attimo» mormorai a mio fratello.
I suoi occhi si spalancarono, allarmati.
«Non me ne vado» fui costretto ad aggiungere. Gabriele annuì, più tranquillo, anche se la sua postura era cambiata.
Camminai radente il muro per non disturbare i fedeli che stavano seguendo la celebrazione, per lo più genitori con figli piccoli.
Alla messa delle 9.30 partecipavano i bambini del catechismo. Avevo iscritto Gabriele con un anno d'anticipo con la speranza che potesse legare con i coetanei. Mia madre era stata molto religiosa. Avrebbe approvato la scelta.
Da allora ogni domenica lo accompagnavo in chiesa, anche ora che i corsi erano terminati. Se era con Don Gaetano, non l'avrebbero toccato.
Non ancora.
Oltrepassai il portone e respirai l'aria immobile del mattino.
Nonostante non fossero ancora le 10.00, il piazzale era inondato dal sole e la temperatura era proibitiva.
Sfilai il telefono dalla tasca e aggrottai la fronte quando notai le cifre sullo schermo.
Non era il numero di un cellulare, né aveva il prefisso di Napoli.
Chi poteva chiamarmi in un giorno festivo?
Non dovetti chiedermelo ancora per molto.
«Pronto» risposi al primo squillo, sorpreso dall'insistenza.
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SANGUE AMARO di Angela D'Angelo
ЧиклитScampia. Un luogo dimenticato dallo Stato. Un quartiere che vive di luci e ombre. Un ghetto abbandonato dalle istituzioni. Antonio. Figlio del suo rione. Una vita gravata dal peso delle responsabilità. Ogni suo giorno è una battaglia c...