Parte I

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Quando il mondo non aveva ancora inventato tutte le parole per descriversi e i savi non conoscevano l'uso dei segni, se non per stilizzare lussureggianti figure animali, venne un uomo che seppe comandare gli altri uomini. Tutti lo chiamavano il Re, alcuni, il Padre, qualcuno, il Tiranno. Egli non era vecchio e neppure giovane, ma nessuno conosceva il numero delle primavere che aveva veduto, né il numero delle lune che aveva vegliato. Nessuno sapeva quale fosse la virtù che gli concedeva il comando di così tante tribù, eppure tutti gli riconoscevano il carisma del capo, l'istinto della guida.

Non si affidava ai magi, ai druidi, agli sciamani. Non si affidava all'oracolo di Manteio, e neppure a quello di Kahin. Egli non guardava nel fuoco. Egli non auspicava il futuro dalle viscere delle fiere. Egli sembrava appartenere ad una razza di uomini senza credo, eppure piena di Fede. Egli conosceva la conoscenza della Verità. Egli possedeva la voce lapidaria e tonante del Silenzio, l'ansiosa abilità di ascoltare, di chi non ode, lo sguardo luminoso e inconfutabile della Notte che mira fiduciosa ai mondi lontani e divini fra le stelle. Egli amministrava la giustizia dei giusti e degli equi, con la severità dei risoluti e la magnanimità dei misericordiosi. Egli rispettava sacralmente i cicli ridondanti della natura, i misteri geometrici delle sue ragioni. Egli conosceva l'origine dei venti e delle correnti. Egli dava nome alle costellazioni e prevedeva il moto degli astri. Possedeva il segreto della Pioggia e il potere della Siccità. Egli comandava e le cose gli ubbidivano. Anche il Grande Fiume aveva domato con la meraviglia delle sue chiuse artificiali.

Un giorno, quando aveva finito di chiamare tutte le pianure e conosciuto i profumi di tutte le piante, e celebrato i matrimoni di tutti i giovani della sua città, annunciò che di lì a un anno, secondo il ciclo del sole, sarebbe partito per non tornare più. I suoi sudditi, che allora lo amavano molto, si addolorarono alla notizia, ma non lo pregarono di restare, poiché sapevano che il Re stava sempre nel giusto e non prendeva mai decisioni, se non per stabilire cose buone e dovute. Ma la commozione fu tanta, che nessuno ricorda se egli attese davvero tutto quel tempo, se non passò soltanto un giorno, o se si trattenne per altri lunghi dieci anni. Tutti, però, ricordano il suo dono: il grande tempio megalitico.

Quello di costruirlo fu anche l'ultimo suo comando, a parte quello importantissimo, che più avanti vi dirò.

Per far ciò, subito dopo aver parlato delle sue intenzioni ai sudditi della città, radunò dai campi tutti gli uomini e tutte le donne che trovò e insegnò loro il modo di coltivare la terra con l'aratro. Fece questo, affinché molti di loro potessero lasciare le campagne e dedicarsi alla nuova costruzione, senza che la quantità di frumento prodotto diminuisse per la mancanza di braccianti. Allora li divise in varie squadre e li condusse su a Nord, per una pista che aveva fatto tracciare il mese prima.

Giunti che furono in vista delle Colline Bianche, il Re spiegò loro un modo per cavarne la pietra, ed essi ne ricavarono molti lastroni, tanti quanti ne contava il Re.

Ciò fatto, secondo le usanze dei locali, sacrificò un vitello affinché gli dei lo perdonassero di avere ferito la madre Terra. Poi condusse i suoi operai e le loro pietre di costruzione giù per un'altra strada, che solo lui conosceva, e di qui discese il corso del Grande Fiume. Arrivò, infine, al fondo di una valle, nel giorno che si era prefissato. Mandò allora a chiamare i sacerdoti e gli osservatori dei cieli che aveva scrupolosamente istruito durante gli anni del suo regno. Questi, attesa la notte, secondo matematiche oggi primitive e allora avanzatissime, stabilirono le posizioni in cui piantare i bastoni cerimoniali per la rilevazione delle distanze fra i triliti, dei giochi d'ombra e delle posizioni del sole e delle altre stelle all'orizzonte, prendendo per riferimento l'asse mediano della futura costruzione.

Il Re rimase sveglio durante tutto questo processo e, pressoché ininterrottamente, per altre tre notti e tre giorni, per controllare che i saggi non avessero sbagliato. All'alba del quinto giorno, quando l'ombra del sole si allungò perfettamente perpendicolare ad una roccia che aveva fatto piazzare nel mezzo della valle, decise che i calcoli erano corretti. Concesse ai suoi operai un ultimo giorno di libertà prima di iniziare i lavori e decise finalmente di riposare egli stesso. Dormì un giorno intero, di un sonno profondo che parve quasi morto. Quello successivo si svegliò e narrò a tutti il suo grande sogno sulla dea Luna, ragione del tempio, omettendo, però, di raccontarne l'ultima parte. A coloro i quali avevano il privilegio di stargli accanto, egli parve in volto più luminoso del solito, mentre più giovani apparivano anche le sue membra.

In punta di freccia, la lunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora