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L'orologio rosso sulla parete segnava le 11:30, questo significava che anche quel giorno la tortura stava per finire. Era l'ultimo giorno di scuola del terzo anno di liceo. Facevo il liceo scientifico ma odiavo matematica, scienze, chimica e robe del genere. Ero stata costretta a prendere quell'indirizzo in quanto fosse l'unico che si trovasse nella mia città quindi non avevo avuto molta scelta. La mia città era molto piccola, cerano solo due classi terze ma non ero riuscita a farmi degli amici in nessuna classe, nemmeno nella classe prima. Ero diventata troppo timida, avevo paura di esprimere le mie opinioni, avevo paura di parlare, di ridere, di scherzare. Avevo paura di vivere. Ero sola, come al solito, in fondo alla classe. Potevo vedere tutto da lì. Alcuni ragazzi dormivano sul banco, altri mandavano milioni di SMS ai loro milioni di contatti, alcune ragazze si truccavano o mettevano lo smalto. Non capivo chi fossero ma la puzza di acetone arrivava fin lì. Alcuni parlavano tra di loro di come avrebbero passato le vacanze. Da quello che avevo sentito la maggior parte di loro sarebbe rimasta in città. Il professore diceva qualcosa con tono scocciato e svogliato, come al solito, stava spiegando qualcosa che riguardava sei numeri e delle lettere ma non stavo ascoltando assorta nei miei pensieri. Io ero lì, sola, come al solito, ad osservare, a guardare il cielo fuori dalla finestra, a disegnare, a fantasticare e a pensare alle canzoni che avrei potuto suonare e cantare e ai soggetti che avrei potuto fotografare. Stavo pensando al concorso. Avevo infatti deciso di iscrivere me, ovvero i miei disegni, ad un concorso. Se avessi vinto avrei ricevuto dei soldi che sarebbero serviti a me e a mia madre a pagare l'affitto. Vivevo in fatti sola con mia madre una stanza molto piccola e avevamo parecchi debiti con il proprietario. Stavo disegnando qualcosa sul quaderno di matematica quando la finestra si spalancò e il vento fece cadere tutti i fogli con i miei disegni per terra. Angela, una delle mie compagne di classe e schiava di Monica li prese e glieli passò ridendo. Monica mi guardò, scoppiò a ridere e cominciò a dire cose qualcosa a bassa voce alle sue amiche. Cercavo di vedere cosa Monica stesse facendo ai miei disegni, ai disegni a cui avevo dedicato ore ed ore di lavoro ma non riuscivo a vedere a causa dei ragazzoni seduti dietro di lei. Rimasi in silenzio per i quindici minuti che rimanevano per la fine della scuola. Furono 15 minuti lunghissimi, non sapevo cosa Monica stesse facendo. I soldi di mia madre non bastavano a mantenere la casa e avevamo molti debiti. Avevo paura, senza quei soldi io e mia mamma saremmo state sfrattate, io sarei stata affidata ad un'altra famiglia e avrei dovuto lasciare mia madre vivere in strada. Io non volevo, non poteva finire così. Monica mi odiava. Lei era la leader del gruppo, era lei a comandare e tutti le ubbidivano. L'unica cosa che sapeva fare era comandare a bacchetta ma le ragazze, stranamente, le correvano dietro. Era stata capace di togliermi quei pochi amici che ero riuscita a farmi raccontando migliaia di cazzate su di me. Un giorno una ragazza era mia amica e il giorno dopo mi lanciava occhiatacce e cercava di sporcarmi con il suo frappè. Non sapevo cosa dicesse o che metodo usasse ma qualunque cosa facesse funzionava. Mi aveva completamente esclusa non solo dalla classe. Tutta la scuola mi prendeva in giro, tutta la scuola mi odiava e a nessuno passava per la testa di salutarmi o avvicinarsi a me. Ero invisibile. Monica non faceva altro che prendermi in giro e parlarmi alle spalle. Lei era carina, indossava perennemente tacchi alti, minigonne o pantaloncini fin troppo corti, maglie scollate e semitrasparenti. Erano tutti vestiti di marca che io, decisamente, non potevo permettermi. Usava ogni giorno tre chili di trucco, io, sinceramente, non avevo mai visto la sua faccia senza trucco. Aveva i capelli biondi e lisci, con qualche ciocca blu. Aveva un bel fisico ma era piatta e riempiva il reggiseno di chili e chili di imbottitura come facevano le altre a non accorgersene. Io venivo esclusa perché non ero come loro. Ero una ragazza semplice, non amavo truccarmi, avevo sempre le mie Converse, i miei jeans e la mia semplice T-Shirt. Non ero ricca come loro e non possedevo una enorme vastità di vestiti. Non mi schifavo quando vedevo un insetto, non cominciavo a correre per tutta la scuola, a gridare e a saltare addosso a un ragazzo solo per aver visto una farfalla. Non prendevo in giro le persone, non mi piaceva parlare alle spalle e certamente non ero una vipera come loro. Ero brava a scuola e, alle medie, le uniche volte che una di loro mi rivolgeva la parola era per chiedermi (obbligarmi) a farle copiare i compiti o fare i compiti al posto suo e se rinunciavo...mi rendeva la vita impossibile. All'inizio venivo solo esclusa ma poi dopo qualche mese... mi ritrovai a fare i compiti per 4 o 5 persone il pomeriggio e cominciai a trascurare il mio studio. In più avevo cominciato da poco a lavorare e non avevo più tempo. I miei voti calarono, io mi rinchiusi sempre di più in me stessa. Arrivai al punto di avere aura di parlare. Dopo tre anni delle medie e tre del liceo, mi abituai ad essere la ragazza emarginata e cercai dei modi per passare il tempo e non annoiarmi. Il pomeriggio, dopo scuola, andavo a lavorare in un Caffè come cameriera. Mi servivano dei soldi e cominciai a lavorare a 13 anni. Dopo che Monica scoprì del mio lavoro fece del Caffè dove lavoravo il suo punto di incontro con il resto del gruppo. Mi trattavano tutti come una schiava ed io ero costretta ad obbedire a tutti i loro ordini. Mi insultavano e mi prendevano in giro anche durante il mio orario di lavoro. I quindici minuti passarono lentamente e finalmente la campanella suonò. All'uscita di scuola mi diressi verso Monica, accerchiata dalle sue schiave ma non ebbi il coraggio di dire nulla. La guardai con gli occhi lucidi, carichi di tristezza, di paura, di pianto, di rabbia. Rimasi ferma a guardarla negli occhi, a guardare i miei disegni nelle sue mani. Questa si avvicinò e mi guardò con aria di sfida. Di colpo mi sentii piccola, insulsa, inutile. Pensavo a ciò che sarebbe potuto succedere e aspettavo che dicesse qualcosa. Passò un minuto, il minuto più lungo della mia vita. Aprì la sua bocca piena di rossetto bordeaux e fece un sorrisetto.

"Hey poveraccia, hai perso qualcosa?"

Mi disse guardandomi dalla testa ai piedi.

"I miei...i miei...dammeli ti prego"

Sussurrai singhiozzando.

" I tuoi...i tuoi cosa? Parla brutta stronza"

Rimasi in silenzio. Avevo paura.

"Che c'è, non riesci a parlare? Tuo padre non te l'ha insegnato?"

Gli occhi mi divennero ancora più lucidi. Volevo andare via. La parola padre era la più dolorosa che potesse dire. Non avevo mai conosciuto mio padre, lui aveva abbandonato mia madre incinta ed era morto in seguito ad un incidente con la sua moto. Non sapevo niente di lui e queste erano le uniche cose che sapevo di lui.

"Oddio scusa, dimenticavo che tuo padre è MORTO dopo aver abbandonato te e quella puttana di tua madre! Oddio scusa, non volevo dirlo, ma tu mi perdoni vero?"

Ero arrabbiata ma abbattuta, rivolevo i miei disegni e le replicai con voce tremante.

"Dammeli ti prego, sono importanti per me, ne ho bisogno, ti prego aiutami"

"Ah allora sai parlare"

"Ti prego dammeli, che ti ho fatto, spiegami che ti ho fatto! Tu conosci i miei problemi, tu sai che mi succede ogni giorno, perché mi fai questo!"

Ero disperata e cominciai a piangere.

Monica mi guardò con aria minacciosa e strappò i miei disegni davanti ai miei occhi. Poi disse:

"Vai cogliona, pulisci, lavora come dovrebbero fare tutti quelli come te!"

Dopo aver detto questo scoppiò a ridere e andò via seguita dalle sue schiave.

Continuai a piangere e a raccogliere quei pezzetti di disegni, distrutti come il mio cuore. Ore e ore di lavoro frantumate davanti a me, l'unica possibilità di mantenere la casa e continuare a vivere con mia madre era ormai distrutta. Vedere quei fogli frantumati davanti a me faceva stare ancora più male così buttai tutto in cartella e corsi piangendo verso il mi posto segreto. Era un posto che si trovava in una parte abbandonata della città tra muretti rotti, cocci e murales disegnati con le bombolette da qualche ragazzo. Non cera mai nessuno lì. Era il mio posto dove piangevo, dove suonavo, dove disegnavo. Mi sedevo su un muretto e guardavo il mare lontano o il cielo stellato durante la notte. In una rovina di una casa lasciavo la mia chitarra e i miei quadernetti con gli accordi, i fogli di carta che riuscivo a comprare ogni tanto, le matite che a scuola i miei compagni lasciavano a terra e delle tavolette di legno che usavo come banchetti. Continuai a correre senza guardare in faccia nessuno. Durante la mia corsa molte persone mi bloccarono chiedendomi cosa mi fosse successo ma io facevo un singhiozzo e correvo via. Ero disperata, avevo paura, ero arrabbiata. Arrivai al mio posto finalmente e, dopo aver scavalcato qualche muretto, arrivai nella rovina della casa. Mi gettai a terra e continuai a piangere tra fogli di carta e terra.

When all seems lostDove le storie prendono vita. Scoprilo ora