CHAPTER 2

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La finestra davanti al mio letto rifletteva luce su di esso. Le tende lilla erano aperte in modo che il sole potesse entrare lievemente nella stanza, ma ancora erano le 12:34, e la striscia di luce del sole che penetrava non aveva raggiunto i miei occhi addormentati, per poterli svegliare.
Mi guardavo mentre dormivo. Mi misi di fianco al mio corpo e vidi che era un disastro completo, come ieri e l'altro ieri e l'altro ieri ancora. Il mio viso era girato verso di me, potevo vedere come le mie labbra erano leggermente aperte e lasciavano cadere un filo viscido di bava sul mio cuscino. I capelli erano raccolti in una cipolla, ormai diventata coda con ancora qualche ciuffo rivolto in dentro nell'elastico. Il mio braccio destro era piegato in alto sopra la mia testa, mentre quello sinistro attraversava il mio petto e finiva nel lato destro del letto.
12:35
Il mio piede destro cadeva fuori dal lato del letto e rimaneva scoperto, mentre la gamba sinistra era l'unica cosa normale e che stava al suo posto.
Roteai gli occhi, mentre l'orologio, sulla parete sinistra, non digitale (ci tengo a sottolinearlo, perché quelli digitali non sono abbastanza precisi come quelli a lancette) batteva le 12:36, e la striscia di luce cadde sui miei occhi, e mi svegliai.
Sbattei le palpebre un paio di volte, per cercare di mandare via la patina che ti resta quando dormi più di dodici ore. (Io avevo dormito per 13 ore, due minuti e non ho fatto in tempo a contare i secondi. Non ci riesco mai quando sono tanto stanca da addormentarmi come un sasso). Tirai le coperte da un lato, quindi il mio busto rimase scoperto, mentre le gambe erano ancora al caldo.
12:39. Era ora di svegliare anche il signor Tumnus (lui aveva dormito più di me: 17 ore, 13 minuti e 6 secondi).
Mi misi seduta sul bordo del letto, trovando la forza di svegliarmi e sollevare il peso del mio corpo con soli due bastoncini, anche chiamati gambe. Non dovevo farlo troppo veloce, se no mi sarebbe girata la testa, come dice il Dottor Nolan. Non credo che mi possa davvero girare la testa, ma lo dice il Dottor Nolan, quindi lo faccio.
Aspettai quel che bastava, e poi mi ressi in piedi. Sotto al letto riposava il Signor Tumnus, così gli aprii lo zaino, infilai i sui tubicini nel mio naso e lo accesi. Fece il suo primo rumorino, ma poi si trasformò in un rumore più metallico.
Diamine.
Presi a schiaffi il Signor Tumnus per un po', ma continuava a non funzionare.
Lo aprii sbuffando, controllando le capsule d'aria.
- Scusa Signor Tumnus -
Poi mi resi conto che le tre capsule incastrate nel suo pancino erano tutte e tre finite.
- Caspita - battei la mia mano sulla testa.
- Mamma! Mamma le hai tu le altre capsule? -
- Oh, buongiorno tesoro - sbucò dietro di me, con uno straccio da cucina in mano, mentre si puliva le mani.
- Mamma, le capsule - allungai la mano.
- Come, sono finite? - sbarrò gli occhi - Perché non me l'hai detto prima? -
- Non me ne sono accorta... -
- Quelle di scorta sono finite... mannaggia - sbuffò - Tesoro, non posso andarle a prenderle io, ora -
- Vado io dal Dottor Nolan
- Mo, ce la fai?
- Penso di si - mi alzai.
- In ogni caso, portati il cellulare. Se succedesse qualcosa...
- Non ti preoccupare, penso di farcela.
Mamma annuì e se ne andò, sentii i suoi piedi ticchettare giu per le scale.
I miei piedi invece si diressero verso il bagno, accesi la luce, così mi lavai e mi preparai, e poi mi misi il mio cerotto color pelle sulla prima falange del pollice sinistro. Poi mi lavai le mani, e per essere sicura le insaponai una volta, le sciacquai, le insaponai ancora, le sciacquai, le insaponai e le risciacquai. Le asciugai e uscii dal bagno, e spensi la luce. Poi la riaccesi, per vedere se la prima volta l'avevo spenta per davvero, e la rispensi.
Scesi le scale, scendendo ogni gradino con sempre il piede destro.
- Ciao mamma
- A dopo, gioia. Mi raccomando, eh?
Sorpassai l'uscio con il piede destro, e mi diressi all'ospedale, dal Dottor Nolan.

- Buongiorno. Mi scusi, cercavo il Dottor Nolan - dissi, alla signorina bionda dietro alla reception con la coda leggermente sbilanciata sulla sinistra. La mia mano tremava dalla voglia di sistemargliela.
- Dovrebbe essere libero tra meno di dieci minuti.
- Mh - sorrisi nervosamente. Cercando di frenare la voglia di sistemarle la coda.
Mi sedetti su una sedia verde sbiadito dell'aula d'aspetto.
Due minuti dopo un signore si sedette affianco a me. Ma diamine, ci sono 23 sedie libere (due erano occupate da una mamma e suo figlio, davanti alla porta del Dottor Trawnley), perché deve invadere la mia aurea d'aria? Che tra l'altro stava finendo... mi ritrovavo a fare dei respiri sempre più profondi.
- Ciao - chi sei e cosa vuoi? Perché mi saluti?
Girai la testa verso di lui e mi accorsi che non era un signore, ma un ragazzo. Avrà avuto la mia stessa età.
- Io sono Jesse - cielo. In quell'istante mi ricordai dei capelli ricci che vidi davanti al Crab's.
- Io sono una persona non molto interessata a parlare in questo momento. La mia aria sta finendo e non ho voglia di sprecarla.
- Se mi avessi detto il tuo nome avresti sprecato meno aria, lo sai? - disse sorridendo.
- No, non è vero. Non conosci il mio nome e non puoi sapere quanto possa essere lungo.
- Di sicuro non avrai un nome più lungo di Benedict Timothy Carlton Cumberbatch.
- Mo. Mi chiamo Mo.
Scoppiò in una fragorosa risata. Pensavo che le uniche altre tre persone (la receptionist, la mamma e il suo bambino) che erano vicino a noi si sarebbero girate, e le mie guance erano pronte a diventare rosse. Ma nessuno si girò.
- Mo? Solo... Mo?! - e rise ancora - Non ci credo, non è possibile. Oltre che ad essere estremamente corto, facendo diventare questo momento estremamente divertente, visto che ti bastava solo un fiato per dirlo e non settantadue, Non ha nemmeno senso come nome.
- Intanto i fiati che ho usato sono stati diciassette e non settantadue, poi, nemmeno Jeff ha tutto questo significato.
- Innanzitutto è Jesse. E deriva dall'ebraico. Potrebbe significare dono, è quindi affine, dal punto di vista semantico, ai nomi Csaba, Darko, Doron e Shai. Altre fonti riportano invece uomo o maschile, virile, rendendolo quindi più simile per significato ad Andrea.
- Stai scherzando? Te lo sei imparato a memoria?
- L'ho letto due volte da Wikipedia
- Che cosa strana da fare.
- Intanto non sono io a far tentennare la gamba fin da quando mi sono seduto.
Effettivamente la mia gamba traballava, sempre, costantemente. La fermai.
- Dovremmo scoprire cosa significa il tuo
- Dovremmo?
- Perché sei qui?
- Perché tu sei qui?
- Te l'ho chiesto prima io.
Brontolai.
- I miei polmoni - toccai il mio torace. Anche se non aveva senso... Perché dovrei toccarmi il torace se si parla di polmoni? Ma mia mamma lo fa quando racconta a mia zia dei miei polmoni, e quando dice la parola "polmoni" si tocca il torace. 1. Parla dei miei polmoni, quindi perché si tocca il suo torace? 2. I polmoni non sono il torace.
- Cos'hanno i tuoi polmoni?
- Non riescono a prendere abbastanza aria da soli, così li devo aiutare con il Signor Tumn... Ehm... devo inalare dell'aria artificiale. Ma l'ho finita e sono qui a prenderla. Tu perché sei qui?
- Ah, si - mise le sue mani incrociate dietro la sua nuca - Hai notato come tutti i colori qua dentro sono sbiaditi?
Poi il Dottor Nolan aprì la porta, salutò una signora che uscì dal suo studio e poi mi notò.
- Ciao Mo!
Sentii Jesse ridere ancora, e poi mi alzai.
- Vieni, entra.
Raggiunsi la porta ed entrai nella sala azzurra, sbiadita.
- C'è qualche problema?
- Nossignore, ma ho finito le capsule d'aria.
- Ah, capisco. Come sta il Signor Tumnus? - intanto mi sedetti sulla sedia, dove mi sedetti anche ieri e l'altro ieri e l'altro ieri ancora.
- Lui sta bene. Lui si. Le capsule no.
- Te le do subito.
Prese una schedina rosa con qualche quadretto bianco qua e là, larga mezzo foglio A4 e ci scarabocchiò sopra qualcosa, che non riuscii a capire. Si alzò, infine, e prese una scatola delle mie capsule nell'armadio gigante, dietro le sue spalle, grigio, e quindi lo chiamavo Bob.
- Ecco a te. Come chiamerai questa scatola, oggi?
- Penso che lo deciderò tornando a casa.
- Bene - sorrise. - Va bene, ci vediamo, uhm... - guardò sullo schermo del computer - Mercoledì.
Probabilmente aveva dato un'occhiata al suo calendario elettronico.
- Sissignore - mi alzai dalla sedia di fronte a lui, facendo il saluto da militare, con la mano destra sulla fronte e la sinistra dietro la schiena, facendo sbattere fra loro i tacchi dei piedi.
Il Dottore rise.
- A martedì, signore - misi anche la mano destra dietro la schiena.
- Mercoledì, Mo. Mercoledì.
- Ah, si. Mercoledì.

La scatola ballonzolava ad ogni passo che facevo, e le capsule si scontravano tra loro.
Piede destro, piede sinistro. Piede destro, piede sinistro. Ogni passo, 93 centimetri sempre più vicino a casa.
- Loraine. Tu ti chiami Loraine - dissi alla scatola.

I have my band-aid on my finger || La svolta Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora