1. Crescere

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Mi sono sempre considerata una Cenerentola molto fortunata. Da bambina, quando mi immaginavo danzare con il principe azzurro, ero certa che poi mi avrebbe ritrovata anche in mezzo a 1000 aspiranti principesse. Quale altra dama di corte sarebbe riuscita a calzare una scarpetta come la mia?
Le fiabe però non ti raccontano proprio tutta la storia e sicuramente non menzionano come si arriva ad avere un piede grande come il mio.
La chiamano crescita, ma forse farebbero meglio a definir la metamorfosi. Fiori che sbocciano, farfalle che escono dal bozzolo: l'adolescenza te la descrivono come una gita in campagna, mentre tu ti senti molto più simile a Gregor Samsa. Lui una mattina sì è svegliato scoprendo si è trasformato in un enorme scarafaggio, tu vai a dormire chiedendoti quale nuovo brufolo ti spunterà nel corso della notte.
C'è stato un tempo in cui il mio lo sviluppo in altezza sembrava non arrestarsi più, incontenibile, tanto da ritrovarmi incastrata in un letto troppo piccolo.
Me ne stavo al buio, immaginando il mio corpo che si trasformava, si allungava, si espandeva senza che io potessi farci nulla. Immobile, cercavo di ascoltarne la crescita. Intorno a me però c'era solo silenzio, perché la metamorfosi e muta, è un processo che non fa rumore.
È un tuo come sdraiarsi su un prato e pretendere di sentire l'erba che cresce. Certe cose non le puoi percepire, ma i sensi non bastano a dare un suono o una forma a quello che provi.
Fuori esplodi, andando oltre ogni parametro di misura. Dentro in Bloody, chiedendoti cosa fartene di questi arti ipersviluppati dei quali non hai neppure pieno controllo. Non somiglieranno alle zampe sottili di un gigantesco insetto - come quelle del povero Gregor - ma restano comunque gambe e braccia scordi nate, incapaci di muoversi con la grazia e l'armonia che si convengono a un'aspirante principessa.
Non ero una futura regina, ero Gulliver imprigionato dai lillipuziani. Per liberarmi ho dovuto scoprire cosa fossi in grado di fare con quel corpo che mi apparteneva ma di cui non avevo ancora pieno possesso. Ci vuole pazienza per recarsi, un filo alla volta, dei lacci che ci impediscono di essere padroni di noi stessi. Centimetri e chili ostacolano i nostri movimenti, come se arrotolate intorno a noi ci fossero funi spesse, di quelle che si usano nelle navi, mentre complessi e paranoie avvolgono la nostra mente. Ogni volta che ti sembra di venirne a capo, scopri che il groviglio e molto più intricato di quanto pensassi.

A sciogliere i miei nodi è stato lo sport: da quando sono entrata in un campo di pallavolo ho cominciato a sentirmi un po' meno diversa e ho iniziato a familiarizzare con un mondo dove non ci sono solo compagne alte due metri, ma c'è posto anche per le ragazze che superano di poco l'uno-e-cinquanta. È una questione di ruoli: ci sono quelli in cui servono centimetri e forza e quelli in cui contano le attività e controllo. Senza gli uni, gli altri sono inutili. Ricezione, palleggio, attacco: non c'è idea di squadra più forte di questa, in cui una singola giocatrice - da sola - non può fare tutte e tre le cose. Se vuoi vincere, hai bisogno delle altre, sia di quelle alte sia di quelle basse.
E molto spesso le azioni portano proprio della più piccola, il libero, quella che si sacrifica per tutte, perché riceve, difende, ma non attacca mai. Per questo nessuno vorrebbe mai fare il libero: vuoi mettere la soddisfazione di schiacciare un pallone a terra e fare punto?
Anche libero va bene, non è un ripiego pur di andare in campo. E capire che ci sono tanti modi diversi per diventare essenziali.
Bisogna mettersi in gioco, provare e riprovare sino a trovare il nostro posto. Quello in cui riusciamo a esprimere quello che siamo. Vale per la pallavolo e anche per tutto il resto.
Quel posto esiste sempre, basta solo cercarlo bene.
Io l'ho trovato guardando alla tv la cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici di Londra. Tra le delegazioni che camminano ordinate e un po' impettite, irrigidite nelle divise da sfilata, l'ho visto con chiarezza: quello che funziona per me nella pallavolo, accade anche a chi si dedica ad altro.
C'è un corpo per ogni sport è uno sport per ogni corpo.

Nel canottaggio sembrano tutti giganteschi fino a che arrivi al timoniere. L'atletica è sempre la famiglia più numerosa e variegata, dove maratoneti e marciatori macinano chilometri anche per pesisti e martellisti. I tiratori con l'arco sono i Clark Kent A cinque cerchi: sfoggiano fisici insospettabili e sulla linea di tiro si trasformano in Superman. E poi ci sono quelli che fanno equitazione, che per età media potrebbero essere i genitori di buona parte del resto della spedizione.
Non credete a chi dice che Per sognare le olimpiadi bisogna essere perfetti. A Londra si sono fatti largo i 218 chilogrammi di Ricardo Blas jr, judoka che da solo pesava quanto l'intera squadra femminile di ginnastica del Giappone, di cui faceva parte Asuka Teramoto, 30 chili per un metro-e-trentasei.
Magri, grassi, alti e bassi... I giochi olimpici nonsono una sfilata di moda. E gli atleti quando fanno il loro ingresso nello stadio sono molto più sorridenti delle modelle e dei modelli che camminano su una passerella.
We are all uncool è una campagna nata negli Stati Uniti e che molti atleti hanno deciso di sostenere sui social. Il messaggio sta già nel nome: abbiamo tutti i nostri punti deboli, delle cose di noi che non ci piacciono. Quelli che vi aderiscono postano una loro foto, scrivendo tre cose di loro stessi che normalmente non condividerebbero. In particolare mi è piaciuto quello che ha scritto Lolo Jones, una campionessa mondiale che le olimpiadi le ha vissute sia d'estate sia di inverno, passando dagli ostacoli dell'atletica al bob:
1. Posso facilmente fare squat con 90 chili ma continuo a non avere un bel sedere.
2. Porto la stessa misura di reggiseno della mia nipotina di 12 anni.
3. Non ho una medaglia olimpica.
Il punto due probabilmente potrei scriverlo anch'io e, mettendomi davanti allo specchio, il mio personale elenco di cose che non mi piacciono verrebbe di sicuro più lungo. Di una cosa però sono incerta: potrei indovinare, a colpo sicuro, quale di questi tre punti Lolo sceglierebbe, se potesse cambiarne solo uno...
E lei di Olimpiadi ne ha vissute già tre, mentre io un emozione del genere devo ancora provarla.
Lolo ha sponsor importanti e un quarto posto che non va né su né giù, indigeribile. Lolo, con la sua pelle scura e gli occhi verdi, nelle vene sangue di quattro popoli diversi: e nativa americana, norvegese, africana e francese.
E io che pensavo di essere complicata perché ho la mamma italiana e il papà senegalese... Non so come si sentisse lei da piccola, non la conosco, ma mi ricordo molto bene come sono cresciuta io, lottando con i miei capelli che volevo a tutti costi lisci. Dai sette ai diciassette anni ho dedicato ore, giorni interi a stirarli con la piastra: mi chiudevo in bagno e non ne uscivo finché non erano completamente appiattiti. Per non parlare di quella volta che mi sono messa in testa una parrucca bionda: c'è sempre qualcosa che non hai e che vorresti.
Adesso ho fatto pace con i miei ricci e anche con i miei due metri-e-zero-due. Ho passato anni a ingobbirmi nelle foto, per sembrare un poco più bassa e confondermi all'interno del gruppo. Fino a che ho deciso che nell'inquadratura ce lo spazio anche per me e che non facevo nulla di male a concedermi un paio di scarpe con il tacco. Quando le metti i piedi, ti senti un po' più donna è un po' meno atleta. Ma non dimentichi mai la bambina che sei stata.


VALENTINA DIOUF - Quando sarai grande Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora