3. Cantando Pinocchio e le Spice Girls

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Se esistesse una macchina per misurare la soglia di sopportazione del dolore fisico, io probabilmente riuscirei a farla sballare.
Di solito non piango mai quando mi faccio male: se mi sbuccia il ginocchio, cadendo, non ho alcun problema a mettermi un cerotto da sola e ricominciare a giocare. Per questo mia madre capisce che sta succedendo qualcosa di grave quando, nel cuore della notte, la sveglio e le dico: «Mamma... aiuto...».
Per tutta la settimana sono rimasta a casa dalla scuola materna, perché vomito in continuazione. La dottoressa che mi ha visitato ha detto che non c'è nulla di cui preoccuparsi: si tratta di una banale influenza che passerà con alcuni giorni di riposo.
Io però vomito sempre. Prima il cibo e poi, quando non ho più nulla dentro allo stomaco, i succhi gastrici. Non va per niente bene: me ne sto tutto il tempo a letto, ma non miglioro.
Quando i dolori che sento diventano insopportabili, barcollo sino alla camera di mia mamma e la chiamo, scuotendole una spalla. Mi guarda assonnata, ma non appena sente il mio lamento si sveglia completamente.
Lei da qualche giorno non ingessatura che le blocca il piede, perché si è presa una brutta storta. In teoria non potrebbe guidare, ma ha deciso di portarmi in ospedale e perciò mi mette una giacca sopra il pigiama e mi carica in auto. In qualche modo riusciamo ad arrivare sino al pronto soccorso.
Lì ci sistemano in una sala d'attesa: io steso su una barella, mamma seduta su una sedia rotelle accanto a me.
Ho freddo, un sacco di freddo. Per fortuna tra il personale in servizio c'è anche il papà di una mia compagna di asilo, Désirée: ci riconosce e mi porta una coperta con la quale scaldare un po' il mio corpo, scosso da brividi.
L'attesa non è lunga, perché nel frattempo i medici hanno scoperto che la mia non è influenza: avevo un'appendicite che, senza un intervento tempestivo, e diventata peritonite. Ora devono operarmi d'urgenza.
In sala operatoria la sensazione di freddo aumenta ancora. Il chirurgo mi parla, ripete il mio nome per tranquillizzarmi, sino a che l'anestesia fa effetto.
Mi risveglio qualche ora dopo in una stanza con le pareti colorate e un altro bambino nel letto accanto. Mamma sorride, quindi è andato tutto bene. È stremata, dalla stanchezza e dallo spavento: i medici le hanno detto che, se non mi avesse portata al pronto soccorso entro un paio d'ore, sarei morta.
Dalla mia pancia sbucano dei tubicini: gli infermieri mi spiegano che quello è il drenaggio e serve a verificare che il mio intestino ora sia a posto. Aggiungono che dovrò restare in ospedale per qualche giorno ancora.
Non mi piace l'idea di stare lì una settimana intera, ma Stefania - la mia compagna di stanza - è simpatica e così le ore passano.
In ospedale poi fanno di tutto per divertire noi bambini. L'unica cosa che proprio non mi piace sono... i clown.
Se mi conoscesse, sarei la disperazione di Patch Adams: in realtà non è che mi manchi senso dell'umorismo, anche se sono una bimba piuttosto timida. Il problema è che ho proprio paura dei pagliacci. Loro sono in corsia per far dimenticare i bambini malattie e terapie, ma guardandoli questo è l'ultimo dei miei pensieri: il loro aspetto il loro  trucco mi spaventano così tanto da paralizzarmi dalla paura. Non so perché... forse mi è capitato di intravedere alla tv Pennywise, L'inquietante pagliaccio che Stephen King ha raccontato in It. So solo che gli altri bambini ridono, mentre io vorrei essere invisibile.
Con la mia statura però non è facile nascondersi sotto le lenzuola, in questi lettini di  pediatria. Quando mi tiro lenzuolo sulla faccia, spuntano i piedi. Oppure i capelli. La magia di scomparire alla vista dei clown e non mi riesce proprio.
Eppure, più che degli innocui pagliacci, dovrei temere i medici. È vero che mi hanno tolto il dolore terribile che sentivo alla pancia ma, a quanto pare, siamo destinati a rivederci.
«Dobbiamo toglierti i punti» mi ha detto sorridendomi un dottore con la barba gli occhiali.
Io non gli ho sorriso neanche un po', perché gli altri bambini mi hanno spiegato che questa cosa dei punti fa male. Non sono una fila di punti su un  foglio di carta e neppure quelle cose che alla cassa del supermercato danno alla mamma, per poi farci un regalo.
Questi punti sono dolorosi. Non mi rassicura neppure sapere che il medico che me li toglierà è il più bravo.
«Per te c'è il primario in persona» mi annuncia rassicurante un'infermiera, come se questa cosa dovesse far sparire ogni paura. Lui arriva con una grande massa di capelli bianchi e tutti i suoi assistenti intorno: è gentile, mi avvisa che farà male e mi propone di cantare insieme Pinocchio, per non pensare troppo a quello squarcio di ricucito che ho sulla pancia.
«Carissimo Pinocchio, ricordi quand'ero bambino?»
È una bella voce ma non riesce a superare le mie grida nel momento in cui comincia ad armeggiare sui punti.
In ospedale non ci voglio venire più. Mai più.
Invece ci tornerò molto prima di quanto possa pensare. E ci arriverò a bordo di un'ambulanza.
Niente mal di pancia, questa volta, ma una scena da film: l'auto ha fatto quattro giri su se stessa, cappottando, e siamo tutti a testa in giù. I finestrini sono esplosi e io schegge di vetro anche in mezzo ai capelli.
« dobbiamo uscire da qui. Dobbiamo uscire da qui» ripete mamma a Rosy che è, intontita, al posto di guida. Io guardo Alessandro, suo figlio, che alla mia età e come me sta dietro: sembra che non si sia fatto nulla neppure lui.
Sento delle voci arrivare da fuori.
«Ci sono anche dei bambini» dice un uomo, guardando dentro l'abitacolo.
Dalle braccia mi afferrano e mi tirano fuori, attraverso il finestrino. Vetri rotti, sparsi dappertutto,  mi lacerano la pelle del braccio. Esce il sangue e qualcuno prova a tamponare la ferita con uno straccio, mentre io cerco di vedere dov'è la mamma.
Fino a pochi minuti prima stavamo cantando tutti insieme. Con l'autoradio accesa, quando è passata una canzone delle Spice Girls io ho cominciato a ripeterne le parole a squarciagola. Mamma è Rosy, ridendo, mi sono venute dietro vincendo le timide proteste di Alessandro che, da unico metto, ho provato a chiedere musica meno femminile. Spiacenti: la maggioranza vince.
La musica riempie i miei cinque anni. Mi piace ascoltarne un sacco e per questo mi sono messa a saltare di gioia quando la mamma mi ha proposto di andare un concerto alla cascina Monluè. Mi piace questo posto che sa di campagna, anche se a due passi dal centro di Milano.
Così siamo in auto, nel traffico della tangenziale: due mamme e i loro bimbi felici in una serata d'estate, quando un cretino che guida parlando telefono ci sorpassa veloce e va a schiantarsi contro il guardrail proprio davanti a noi. La sua auto rimbalza, colpisce la nostra che comincia a volare... ed eccomi dentro a un'ambulanza con un braccio sanguinante e, ancora una volta, medici e infermieri intorno a me.
Il sangue mi impressiona, ma con la peritonite il dolore era più forte. Mi lamento solo quando il dottore mi dice che per curarmi dovrà tagliare la mia maglietta. Quella che indosso è la mia preferita: è corta, mi lascia scoperta la pancia, e sopra c'è disegnato Calimero, il pulcino nero.
La pelle del braccio mi viene a ricucita, mentre per la maglia non c'è nulla da fare. A malincuore la devo buttare. Però poteva andarmi peggio: non ho incubi notturni e questo brutto incidente non mi impedirà poi di imparare a guidare. Mi è andata meglio che ad Alessandro: da grande non prenderà la patente perché i flashback del nostro capotamento non l'hanno mai abbandonato. La mia memoria invece è rapida cancellare le immagini più spaventose e l'unico ricordo che non riesco a levarmi di dosso e olfattivo: nel naso, per mesi, sento l'odore della lamiera bruciata, che l'auto ha prodotto strisciando, rovesciata, sull'asfalto.

Alla fine l'unica traumatizzata nel fisico e mamma, che deve starsene per settimane con un collare a causa del colpo di frusta. E non è neppure la conseguenza peggiore. Le nostre giravolte per aria e il colpo finale l'hanno sbandata così tanto che per un po' deve andare in ospedale a farsi rimettere a posto l'equilibrio. Quando usciamo a passeggiare in questi giorni, i ruoli tra noi si invertono: sono io che le prendo la mano e l'aiuto a non cadere, guidandone i passi.

VALENTINA DIOUF - Quando sarai grande Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora