2. Io e Suor Teresa

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Chissà perché suor Teresa ha fatto fare a me la cinese? Un bambino che arriva dal Fujian a scuola ce lo abbiamo. E allora perché proprio io devo rappresentare il popolo della Cina? Non potevo essere olandese, facendomi un paio di cosine capelli? Oppure avrei potuto spacciarmi per brasiliana, disegnando quella bandiera che mi piace tanto, con il verde, il giallo e la palla blu al centro...
In realtà interpretiamo ognuno un Paese diverso: è la recita natalizia dell'asilo e adesso noi, tutti i popoli della Terra, siamo in fila indiana portare un dono a Gesù Bambino. In famiglia nessuno è particolarmente religioso, ma la scuola materna di Seguro - la frazione di Settimo Milanese dove viviamo - è la più vicina casa, e poi suor Teresa è simpatica e ho saputo trasformare la festa di Natale in una celebrazione multiculturale. Così, eccomi: Vale, la cinese.

La prima lingua straniera che imparo però non è fatta di ideogrammi, ma di suoni gutturali: il dialetto lombardo. Il mio è un apprendimento per osmosi, visto che - come tanti altri bambini - passo un sacco di tempo con i nonni. Mia mamma lavora come grafica a Milano e parte presto la mattina e rientra la sera, così nonno Enrico e nonna Maria sono i miei babysitter personali. Con me parlano sempre rigorosamente in italiano, perché vogliono che la loro Nani diventi una bambina beneducata con una buona proprietà di linguaggio, ma io il dialetto lo imparo lo stesso ascoltandoli parlare tra loro.
Nonna Maria e bresciana e perciò a qualche scadenza che sa anche un po' di Veneto, mentre il nonno è un milanese DOC, di quelli che potrebbero stare dentro una canzone di Enzo Jannacci.
L'unica trasgressione che si concedono in dialetto, quando sono con me, è rappresentata dalle filastrocche che cantano per addormentarmi. Ce n'è una che mi fa ridere un sacco, che comincia così:

E mi la donna bionda la vôri no
e mi la donna bionda la vôri no
tutti i omen ghe fan la ronda
e mi la donna bionda
e mi la donna bionda
tutti i omen ghe  fan la ronda
e mi la donna bionda la vôri no

Per ogni tipo, c'è un difetto: per la mora e la rossa, per la magra e la grassa, per quella piccola e quella alta. Anche per quelle come me...

E mi la donna riccia la vôri no
e mi la donna riccia la vôri no
suta ai ricci la ga i capricci
e mi la donna riccia
e mi la donna riccia
suta ai ricci la ha i capricci
e mi la donna riccia la vôri no

Pare proprio che non vada bene nessuna, ma per fortuna ce la strofa finale:

E mi la donna bella la vôri si
E mi la donna bella la vôri si
la ga i oci che par na stella
e mi la donna bella
e mi la donna bella
la ga i oci che par na stella
E mi la donna bella la vôri si

E quando conclude la canzoncina, la nonna mi guarda negli occhi, mi abbraccia e mi fa sentire bellissima.

Con nonno Enrico canto anche mentre mi accompagna scuola, tutte le mattine. La nostra è un'organizzazione collaudata e rodata, fatta di orari e incastri studiati al minuto. Quando la mamma mi porta dai nonni ancora gli occhi chiusi per il sonno, quasi mi riaddormento facendo colazione. E mentre non tira fuori dal garage la sua Punto Sole grigia per scaldare un po' il motore, quando fuori la temperatura è sottozero, io indosso il grembiulino, sul quale la nonna ha ricamato il mio nome.
Il tragitto in auto lo passiamo chiaccherando: il nonno mi racconta di quando giocavo a calcio e faceva il portiere. Non l'avevano scelto per la sua statura - nonno Enrico è leggermente più basso di nonna Maria - , però tra i pali era agilissimo.

Anch'io sono alta. Non proprio come la nonna, ma nelle foto di classe e la mia testa sbuca in mezzo a tutte le altre. Ho quasi raggiunto suor Teresa, che non è la suora più alta ma io arrivata a Milano dalla Sardegna, ma è comunque la figura più svettante nel mio universo scolastico. Sono più grande di tutti gli altri e questo disorienta i miei stessi compagni compagne: vedono questo corpo così imponente e mi scambiano per una mamma. Non è un gioco tipo Mamma casetta in cui io devo impersonare la capofamiglia, non si tratta di fingere di essere grandi e, camuffando il tono di voce, inventarsi conversazioni da adulti come: «Buongiorno signora Brambilla, come sta?».
«Bene. E lei, signora Diouf? Sta andando a fare la spesa?»
mi piacerebbe che fosse una messa in scena, ma non lo è. Gli altri bambini mi guardano e pensano che io non sia una di loro. Il colore della pelle non c'entra, a quello non fanno neppure a caso, però per loro non sono una grande e vengono da me a cercare coccole consolazione, quando si fanno male, o protezione se qualche compagno fa il prepotente sullo scivolo o cerca di scacciarli dall'altalena.
È Valentina, c'è Valentina.
Da come lo gridano sembra che stia per occorrere Wonder Woman, l'eroina in grado di risolvere con il suo lazo dorato tutte le situazioni più intricate. Invece sono solo una bambina. Alta alta, ma pur sempre e solo una bambina.

Non mi piace essere considerata una grande, mi imbarazza e mi fa sentire diversa. La goccia che fa traboccare il vaso arriva un giorno, quando manca qualche settimana la primavera e pomeriggi li possiamo ancora all'interno dell'asilo, senza poter uscire a giocare in giardino. Dopo il pranzo c'è il rito del pisolino pomeridiano: in aula disponiamo una accanto all'altra e tante piccole brandine e suor Teresa, con la voce più suadente, ci dice di sdraiarci, chiudere gli occhi e fare bei sogni.
È l'ora del riposino.
Io non dormo mai. Sin da piccolissima sono una maniaca del controllo e, se non è tutto come ce l'ho in testa, non riesco a rilassarmi completamente e lasciarmi andare al sonno. Per dormire ho la mia cameretta, con la mia rana verde di pelouche, non un'aula piena di altri bambini.
Gli occhi però li tengo chiusi, così suor Teresa e contenta, mentre invece il mio cervello ed è sveglio: penso cosa disegnerò dopo, non appena potrò rimettermi a fare quello che voglio. Matite, pennarelli e colori eccetera mi piacciono tantissimo gli ho sempre le mani dipinte con qualche nuova tonalità. Vado in crisi solo quando il disegno deve stare dentro e quadretti del quaderno io per disegnare ho bisogno di fogli bianchi, senza nulla che limiti la mia fantasia.
Mentre nella mia testa sto immaginando un castello con una principessa (ho deciso: la farò bionda, con una lunga treccia), senti un altro corpo infilarsi nella mia brandina. Federico è il più piccolo della nostra classe, per addormentarsi vuole sempre la mamma e ha deciso che in alternativa, io - così grande - vado benissimo. Questa cosa però non va bene a me: sono stufa di bambini che cercano «Mamma Valentina». Io sono Vale. Punto.
Non ne posso più di questa sedia infantile, ma non so neppure come liberarmene. Non posso mica spingerli via: con una mia manata rischierei di farli volare in terra.
Allora faccio l'unica cosa che può fare una bimba, inerme di fronte a questi indesiderati e assalti affettivi: vado a piangere dalla mamma. Quella vera. La mia mamma. Mamma Silvia.
Le racconto, singhiozzando, che per i miei compagni sono diventata un incrocio tra una babysitter da schiavizzare e una rassicurante bambola in carne ossa da abbracciare. Mamma mi ascolta, tira fuori dalla sua borsa un fazzoletto per asciugarmi lacrimoni, mi soffio il naso e poi va a parlare a suor Teresa.
La vedo confabulare. Mamma ha la faccia seria e parla veloce veloce, tanto che la suora nemmeno prova interromperla. Non sento quello che le dice, ma funziona. Da quel giorno i miei compagni hanno smesso di trattarmi come un'adulta.

VALENTINA DIOUF - Quando sarai grande Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora