4. Non sono fatta per fare l'angelo

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Un-due-tre. Un-due-tre. Cambio. La mia ennesima convalescenza è decisamente movimentata. La ferita al braccio non è nulla di grave e così, quando sono a casa, posso riprendere la mia attività preferita: ballare con nonno Enrico.
Mi diverto un sacco a imparare da lui i passi di danza: mazurka, valzer, charleston... li conosce tutti e me li insegna con pazienza, uno alla volta. Il mio nonno è proprio un gentiluomo d'altri tempi.
Enrico Viganò non è cresciuto nella bambagia: tutta una vita dentro la stessa azienda, la Edison, prima indossando una tuta da operaio e poi diventando un impiegato. Negli ultimi anni di lavoro, mi racconta, andava di casa in casa a leggere i contatori del gas. Forse è proprio presentandosi a famiglie sconosciute ed entrando nelle loro abitazioni che ha affinato quei suoi modi così gentili e il suo aspetto sempre impeccabile. Da quando mamma gli regalato un panama, lo sfoggia orgoglioso pure quando passa la sua canonica ora a zappare nell'orto.
Mi piace il mio nonno, saprei trovarlo anche se fossi bendata e avessi davanti altri cento nonni, tutti seduti su una panchina infinita. Mi basterebbe avvicinarmi per dargli un bacio sulla guancia e riconoscerei il profumo del dopobarba sulla sua pelle.
Nonno Enrico è@ il mio alleato, sempre e comunque, anche quando nonna Maria mi sgrida. In quei casi lui non dice una parola e, per non contraddirla, non muove neppure un muscolo del viso. A me però basta guardare i suoi occhi grigi per capire che mi sta sorridendo.

Quando balliamo, nei corridoi di casa, lui è il mio cavaliere e io la sua dama. Volteggiamo come se fossimo nei saloni di un palazzo reale. Altre volte invece il nostro castello si trasforma in una bisca: ci sediamo al tavolo della cucina armati di un mazzo di carte e, per ore, ci sfidiamo a briscola, ruba mazzetto e scala quaranta. Tengo a mente il calcolo dei punti e cerco di batterlo, ma lui non cede facilmente solo perché sono piccola. Del resto anche qui si vede che tanto piccina non sono: quando gioco a carte con altri bambini, loro hanno bisogno di entrambe le mani per reggere loro mazzetto, mentre a me ne basta una sola. Le mie dita sono così lunghe che nel pugno posso tenere un sasso senza che nessuno dei miei amici riesca a indovinare dove lo nascondo.
Appena arriva la primavera i miei giochi si spostano all'aperto. Uscirei tutti i giorni, in particolare da quando ho ricevuto un paio di pattini nuovi, diversi da quelli che hanno tutti i miei amici. Me li ha spediti il mio papà. Dall'America.

Mio padre non vive con me e la mamma. Si è trasferito negli Stati Ueniti quando io avevo due anni e perciò non ho molti ricordi della nostra vita insieme. Anzi, ne ho pochissimi. La vacanza che abbiamo fatto in Sardegna però mi è rimasta in mente perché al mare mi sono divertita un sacco a sguazzare infilata nel mio salvagente e a giocare con i miei cuginetti Ousmane, Maimouna e Omar. Le immagini impresse nella mia memoria si sommano ai racconti di mia mamma, quando le chiedo dei nostri primi viaggi e dei tempi in cui ancora gattonavo e mi esprimevo a suoni. Adesso parlo eccome e mamma, con pazienza, mi sta sempre ad ascoltare, anche quando la tempesta di domande. Sono curiosa, voglio sapere come ha conosciuto il papà, cosa facevamo insieme la domenica e vorrei capire perché lui non è più qui con noi, nemmeno il giorno di Natale.
Difficile trovare tutte le risposte, il racconto di mia mamma non è come una di quelle fiabe che lei mi legge per farmi addormentare. Qui non c'è un principe azzurro o, se c'è, a un certo punto la favola resta a metà.
Meglio ripartire dall'inizio, per provare a capirci qualcosa. E ascoltare tutto quello che mi racconta mamma Silvia.

Quando ho conosciuto papà Serigne, a una festa, i nostri ruoli erano invertiti: io ero appena ritornata da un viaggio in Senegal, mentre lui viveva in Italia già da un paio d'anni. Parlava un italiano impeccabile, con la r un po' arrotata, retaggio del francese di Dakar, e poi aveva quel sorriso, bellissimo, che hai ereditato tu. Anche se all'epoca in Italia non c'erano molte coppie miste, io guardandolo non vedevo un uomo nero, ma un bel ragazzo con cui era piacevole chiacchierare di tutto. E poi, sin da quando avevo terminato le superiori, le mie due migliori amiche avevano la pelle diversa dalla mia: all'epoca uscivo sempre con la Piera, che di cognome faceva Sandrin, che non veniva dal Veneto ma dalla Tanzania, dove era nata e viveva prima di essere adottata da una coppia lombarda. E con noi c'era l'Harumi, giapponese trapiantato a Milano in viale Monza. Eravamo proprio un bel terzetto.
Così, quando ho visto il Seri, i miei occhi non hanno rimandato al cervello un'immagine schiarita e corretta. Papà Serigne era nero e bello.
Da quella sera abbiamo cominciato a vederci tutti giorni, e dopo un anno, sei arrivata tu.
Il momento più difficile di quei primi mesi è stato parlare della nostra relazione ai miei genitori, perché loro non sapevano neppure che avevamo iniziato a frequentarci. Io avevo trentadue anni, lavoravo e vivevo per conto mio, però per mamma e papà e ero sempre l'unica figlia, la loro bambina. Una bambina che arriva a casa mano nella mano con l'uomo nero. E che annuncia di essere incinta.
Nonno Enrico si è messo a parlare serio serio con Serigne. Non so esattamente cosa gli abbia detto, ma le risposte devono essere piaciute perché, al termine della conversazione, ha voluto stappare una bottiglia di spumante e il Seri, musulmano non troppo osservante, ha deciso che valeva la pena brindare.
Nonna Maria invece non aveva nulla da festeggiare: era contraria a questo rapporto e non faceva nulla per nasconderlo. Come madre aveva sempre criticato le mie scelte, ma stavolta per lei era troppo. Tra noi e da quel giorno è iniziata una guerra in cui non si è risparmiato nulla. Stanca di ascoltare le sue cattiverie, ho pure smesso di risponderle al telefono e allora lei ha cominciato a registrare i suoi monologhi nella segreteria telefonica.
Nonno Enrico magari dentro di sé era pieno di timori, ma non li ingigantiva. Non creava problemi, cercava soluzioni. Così ogni tanto se ne andava a fare due passi con il Seri e gli parlava. Chissà come li vedeva la gente di Settimo Milanese: un pensionato di poco più di un metro e sessanta a passeggio con una ragazzone nero alto quasi due metri.
Quelle camminate, con relative chiacchierate, sono servite a evitare che la situazione degenerasse.
Quando sei nata tu, anche la signora Maria Zanetti in Viganò  ha messo da parte i suoi dubbi, le sue paure e ha cominciato a fare la nonna, così come io ho appreso cosa significa essere una mamma.
Poi però ho dovuto imparare a fare anche un po' il papà. Ma questo è avvenuto dopo.

VALENTINA DIOUF - Quando sarai grande Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora