III

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Il testimone si chiamava Adelmo Turci ed abitava poco fuori dal paese.

Ora era in piedi con il cappello in mano davanti ai carabinieri e si guardava intorno timoroso, come se pensasse di essere arrestato, da un momento all'altro.

Il capitano gli piantò gli occhi addosso aumentando il suo terrore.

«Turci come mai viene a raccontarci questa storia soltanto adesso?»

L'uomo continuava a torcere il cappello e forse avrebbe voluto sedersi se qualcuno gliene avesse dato il permesso. Ma, visto che nessuno glielo aveva detto, pensò bene di restare in piedi.

«Ecco vede, all'inizio non pensavo fosse importante. E poi...»

«Poi avevo paura ecco...»

«Paura di cosa?»

«Paura di avere dei guai».

«I guai li ha soltanto chi commette dei delitti o racconta delle balle» disse Rizzo a muso duro.

«Lo so, lo so. È che non si può mai sapere come vanno a finire queste cose. Si ricorda quello che succedeva prima della guerra? Da chi era sospettato di essere comunista le autorità capivano quello che volevano capire e uno passava dei guai».

«Va bene Turci, lasciamo perdere» sospirò il capitano. «Lei ha preferito andare a raccontare la cosa al segretario del Pci del paese che, come vede, l'ha invitata a riferire però a noi. Si sieda e venga a dirci esattamente che cosa ha visto».

Turci sembrò calmarsi un poco e si accomodò sulla sedia, ma continuò a torcere il cappello.

«Era la notte di martedì» iniziò a raccontare. «Non riuscivo ad addormentarmi. Spesso mi capita di fare fatica a prendere sonno o di svegliarmi dopo poche ore e così, a volte, mi prendo su e quando c'è, come adesso, la bella stagione, vado a fare un giro nei campi. Mi ero allontanato di due-trecento metri da casa quando, nel buio, ho intravisto un'auto ferma ai lati della strada. C'erano due figure ferme davanti all'auto: li sentivo parlare, ma non capivo nulla. Non era italiano, poteva essere russo».

«E perché non è corso incontro ai compagni sovietici?» aggiunse il maresciallo Rizzo con una nota quasi di derisione.

Turci sembrò non cogliere la sfumatura e continuò a raccontare.

«Dopo ci ho anche pensato, ma lì per lì non mi è neanche passato per l'anticamera del cervello. Quei due avevano una voce strana... Non so come spiegarmi, ma aveva un suono duro, cattivo. E poi comunque non erano affari miei, avrei dovuto allontanarmi, ma... ma mi chiedevo anche cosa facevano due stranieri lì, fuori dal paese ai bordi della strada. Era buio e vedevo solo le loro sagome. Uno aveva una torcia e la puntava in basso verso il fosso come a indicare qualcosa, ma a un certo punto l'ha alzata verso l'altro. Allora l'ho visto e ho pensato che avevo fatto bene a restarmene acquattato in mezzo ai tralci della vite».

«Perché?»

«Perché era una faccia davvero brutta. All'inizio, a dire il vero, non avevo neanche visto bene. Il fascio di luce lo aveva investito solo un attimo. Lui ha urlato qualcosa all'altro. Dal tono mi è parso che lo sgridasse, ma dopo la sua risposta si è messo a ridere. Oh, io lo chiamo ridere per farmi capire, ma se aveste sentito quei rumori. Non erano risate normali, sembravano versi non umani, quasi da lupi. In mezzo ai versi quello che sembrava il capo ha preso la torcia dalla mano dell'altro e se l'è puntata di nuovo contro il volto: ora sembrava che scherzassero, ma la faccia che ho visto non metteva certo voglia di ridere. Era pallido e con i capelli scuri. Ma soprattutto aveva una cicatrice, una larga e brutta cicatrice proprio sotto l'occhio sinistro. Sembrava un fantasma. Tenendosi la torcia puntata contro il volto ha guardato l'altro con un ghigno che mi ha fatto venire il ghiaccio nel cuore. Poi i due sono tornati in auto e sono ripartiti. Io sono rimasto acquattato tra i tralci, ma...»

L'oro maledetto e il VaticanoWhere stories live. Discover now