Il capitano guardò sorpreso il professore che sembrava non curarsi più di lui. Leggeva ad alta voce in una lingua che Ricci non capiva, ma dal tono comprendeva che il significato non era piacevole. Andò avanti qualche minuto; poi il capitano lo interruppe.

«Mi scusi» disse, «ma io non capisco nulla di quello che sta dicendo».

Gigliotti ebbe un sussulto come un sonnambulo che viene risvegliato.

«Ha ragione» disse. «Glielo tradurrò, ma glielo confesso, è una cosa che mi costa fatica. E non certo per la lingua».

Nel campo di Jasenovac noi croati non facevamo come i nostri alleati tedeschi. Non avevamo i loro mezzi e la loro efficienza; non sapevamo neanche cos'era quel gas che poi ho saputo chiamarsi Zyklon B. Noi ustascia uccidevamo così come capitava. C'erano le fucilazioni, certo, ma per far fuori i prigionieri veniva utilizzata qualunque tipo di arma, anche le più rudimentali e primitive. Il luogo dove costruire il campo in cui erano rinchiusi serbi, zingari ed ebrei era stato scelto con cura all'intersezione tra i corsi d'acqua della Sava, dell'Una e della Velika Struga nel mezzo dell'area paludosa di Lonjsko. La fuga era così impossibile. Oltre la Sava c'era la regione di Gradina, difficilmente accessibile e spesso inondata dal fiume. Era un luogo praticamente disabitato e lontano da occhi indiscreti. Il posto ideale per uno sterminio di massa. Sui giornali in Croazia, nell'agosto del 1941, era stato soltanto annunciato che venivano realizzati due campi di lavoro vicino ai villaggi di Brocice e Krapie che sarebbero serviti per prosciugare la palude di Lonjsko. In effetti quelli furono i primi due campi di cui Jasenovac sarebbe stata poi composta. Uno si chiamava come il villaggio, Krapje, l'altro Versajev. I primi prigionieri, ebrei e serbi che arrivavano da Slano e Jadovno, inizialmente lavoravano sì alla diga, ma in condizioni terribili, molti morivano di fame e di fatica. In novembre venne aperto un terzo campo, Ciglana, che diventò il punto di concentramento e la centrale operativa di tutto l'universo d'orrore. Sorgeva accanto al villaggio di Jasenovac là dove c'era una grande fornace per i mattoni in cui i prigionieri venivano mandati a lavorare: tutto il sistema che ruotava intorno a Ciglana prese allora nome dal villaggio. Il campo, il numero III, era circondato su tre lati da un muro alto dai tre ai cinque metri. Al suo interno erano stati realizzati sette bunker di metallo e, a intervalli regolari, c'erano torrette di guardia; prima del muro, per scoraggiare ulteriormente qualunque tipo di fuga, tre linee di filo spinato che in alcuni tratti aveva la corrente elettrica. Il quarto lato del campo era libero; a fare da barriera naturale ci pensava il fiume Sava. Dentro la cinta c'era poi una particolare prigione dei servizi segreti per i detenuti «selezionati». Dall'interno di Ciglana si controllavano tutti gli altri campi. Il numero IV si chiamava Kozhara, che significa conceria. Anche qui, all'interno della conceria, i prigionieri lavoravano, sempre in condizioni terribili; il campo numero V era Stara Gradiska ed era pensato appositamente per le donne. C'erano ancora altri tre speciali campi: uno sorgeva proprio all'intersezione dei delta della Sava e dell'Una e si chiamava semplicemente "degli zingari" perché vi venivano rinchiusi i Rom. I villaggi di Mlaka e Jablanac erano stati infine trasformati in appositi punti di raccolta anche per le donne e i bambini. La costruzione e la gestione di tutti i campi erano opera del terzo dipartimento dell'Uns, l'Ustaška Narodna Služba, la polizia politica che tutti conoscevano come la «Guardia Ustascia». Alla testa del dipartimento e quindi di Jasenovac ci fu all'inizio Mjio Babic e poi il comandante Vjekoslav Luburic, noto con il soprannome di Maks. Luburic lavorò alacremente alla realizzazione dei campi dopo essere stato ospite della Gestapo alla fine del 1941. Dai nostri alleati aveva appreso bene come si realizzano i campi, ma non aveva imparato i loro scientifici metodi di sterminio con i gas che poi mi hanno detto essere stati applicati soltanto in seguito. A quel tempo anche i tedeschi uccidevano in Russia e nelle terre occupate ad est con le fucilazioni degli Einsatzgruppen. A Jasenovac però non si usavano soltanto le pallottole che erano un bene prezioso da utilizzare piuttosto contro i partigiani di Tito e Mihajlovic; meglio le armi bianche. I nostri ustascia uccidevano i prigionieri con pugnali, asce e martelli, spesso dopo averli torturati. C'era un ufficiale sadico che amava tagliare le unghie e le dita dei prigionieri. Ho visto che si era fabbricato uno speciale uncino e mi hanno detto che lo utilizzava per togliere gli occhi. Chi ho visto personalmente in azione è stato invece Ljiubo Milos. Amava mettersi un camice da medico all'accoglienza degli ebrei e ci dava ordine di portargli tutti quelli che si lamentavano e dicevano di aver bisogno di un ospedale. Lui li portava verso un'ambulanza, ma invece di caricarli li allineava contro un muro, tagliava loro la gola, gli spezzava le costole e li sventrava. Un'altra volta ho saputo che ha fatto gettare dei prigionieri vivi nella fornace della fabbrica di mattoni. Io cercavo sempre di essere assegnato ai turni di guardia sulle torrette e facevo in modo di evitare di entrare nelle squadre delle morte che uccidevano alla cieca nel campo. Ammazzare era diventata la più quotidiana delle routine per quasi tutt noi, dagli ufficiali ai soldati. Una sera, era l'agosto del 1942, entrai nella baracca della mia squadra: c'era un gran vociare, tutti ridevano e bevevano ad eccezione di un giovane pallido e magro dall'aria sinistra. Si chiamava Petar Brzica e, ho poi saputo, era uno studente di legge. I commilitoni più anziani gli erano intorno, lo incoraggiavano, gli facevano i complimenti «per la sua scommessa» e continuavano a ridere e a offrirgli da bere alla salute del Poglavnik. A un certo punto lui prese un coltello ed uscì alla testa di una squadra mentre tutti urlavano «Petar, Petar» e battevano le mani e i piedi. Aveva scommesso che quella notte avrebbe ucciso più di mille serbi con le sue mani. Non ci potevo credere, ma vinse lui perché ne sgozzò 1360. La cosa più terribile però è quella che capitava ai bambini. A Jasenovac c'era un campo speciale solo per loro: i bambini serbi dovevano essere uccisi nel processo di purificazione della nazione croata. Spesso morivano di fame e malattia e freddo, ma i modi usati per eliminarli erano vari e terribili come quello di chiuderli in un sacco e di gettarli nella Sava perché annegassero. Io li vedevo dall'alto della torretta di guardia aggirarsi per il campo magri e seminudi: iniziai a provare vergogna per la divisa che portavo, ma cercai di non farlo capire a nessuno. Ci riuscii fino a un giorno di settembre del 1942. Vidi che stavano caricando i bambini su dei carri: no ho contati quindici, tutti pieni. Sembrava che partissero e qualcuna delle guardie diceva «Ve ne andate, vi portiamo via». Loro chiedevano se mamma e papà potevano venire con loro e le guardie rispondevano: «Certo, troverete anche mamma e papà». Poi si sono messi a salutarli. «Salutate» dicevano con un ghigno, «fate ciao, ciao». I carri si sono mossi e loro obbedivano agitando le loro manine. «Partono davvero?» chiesi a uno della squadra di scorta. «Certo» mi rispose feroce. «Li uccidiamo». Quella notte non chiusi occhio e nemmeno la notte seguente. Allora aspettai il giorno giusto in cui dovevamo portare dei prigionieri a lavorare nella foresta per tagliare della legna. Avevo messo le mie cose nello zaino. Quando arrivò il momento buono mi allontanai con una scusa e mi misi a correre. Scappai il più lontano possibile; poi caddi in ginocchio e mi misi a piangere. Che Dio possa avere pietà di me.

L'oro maledetto e il VaticanoWhere stories live. Discover now