Capitolo 2.

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Pov.Gabriel
Stavo parlando con i miei amici, cioè, loro parlavano, io stavo lì ad ascoltare i discorsi idioti che trattavano. Parlavano di una ragazza che si era passata tutta la scuola e di quanto fossero prosperose le sue tette. Iniziai a guardarmi intorno, notando che la metà delle ragazze di quella scuola non smetteva di fissarmi. Tra le tante ragazze che mi morivano già dietro ne notai una in particolare. Lei, però, mi guardava in modo strano. Con uno sguardo del tipo "Ma chi ti credi di essere?", e questo mi incuriosì abbastanza. Era bella, ma più che bella mi dava l'impressione di una ragazza troppo intelligente per stare con qualsiasi ragazzo, una ragazza impossibile. Era alta non più di 1.60, aveva gli occhi di un verde intenso, labbra a cuore abbastanza carnose, e capelli corti sul castano chiaro. Chiesi ad un mio amico il nome della ragazza e la risposta confermò ciò che avevo intuito.
«La piccoletta lì si chiama Lydia. È del terzo anno, ma ti consiglio di fermare i tuoi film mentali. Lei non è per te, cioè, quella non è per nessuno.»
Suonò la campanella, e tutti entrammo.

Pov.Lydia
Ero in classe, e tutte le mie compagne continuavano a parlare del ragazzo nuovo. A quanto pare si chiamava Gabriel Smith, aveva 19 anni e andava al quinto anno. Quando presi le cuffie dallo zaino per non sentire più i gridolini delle mie compagne, le mie amiche di misero attorno a me, chiedendo cosa ne pensassi del ragazzo nuovo.
«Sicuramente lo avrai visto, è impossibile non notarlo. È il ragazzo dei sogni. E se proprio devo dirlo, non mi staccava gli occhi di dosso!» disse Isabel.
Isabel era molto bella, quindi non dubitai che il ragazzo l'avesse notata: aveva i capelli biondi ondulati, gli occhi azzurri e un fisico perfetto.
«Ma che dici? Mi stava praticamente spogliando con gli occhi» disse Ginevra, che si ruppe quasi una gamba tentando di scavalcare il banco dietro al mio. Dopo il dibattito delle mie compagne, finalmente, entrò il professore. Iniziammo la lezione di inglese, materia in cui andavo piuttosto bene. Al termine delle lezioni uscii dalla classe, dirigendomi verso l'uscita. Ad aspettarmi trovai la mia migliore amica, Jamaica.
Jamaica aveva i capelli molto lunghi, biondi e lisci, gli occhi azzurri, labbra molto carnose è un fisico altrettanto perfetto. Era alta 1.67 circa ed era del primo anno, ci toglievano due anni. Quando mi vide mi strinse, o meglio dire, mi soffocò con uno dei suoi abbracci "ammazza persone". Mentre ci dirigevamo verso il bar ci fermarono dei ragazzi, tra qui il ragazzo nuovo, che mi sorrise. Uno di loro si presentò a Jamaica, con intento di fare colpo.

Pov.Jamaica
«Piacere John» si presentò il ragazzo dagli occhi azzurri e un teschio tatuato sul braccio sinistro.
«Jamaica» risposi.
«E per me?» disse lui, con un sorrisetto compiaciuto sulle labbra.
«Jamaica» risposi io, con un sorrisetto altrettanto compiaciuto.
I suoi amici iniziarono a prenderlo in giro e, con un sorriso quasi timido mi chiese il numero di telefono, che gli diedi.
Pov. Gabriel
Lei era lì, la ragazza impossibile era lì. Feci un passo in avanti e le porsi la mano.
«Piacere, Gabriel» dissi.
«Lydia» mi sorrise.
Volevo prendere un discorso, ma lei, stranamente, mi intimidiva. Era come se volesse evitare qualsiasi contatto con chiunque. La sua freddezza mi incuriosiva. Decisi di rischiare e, ricordando la frase detta da John poco prima le dissi:
«Ascolta, ti sei fatta male quando sei caduta la cielo?»
Lei fece un'espressione alquanto disgustata.

Pov.Lydia
Ma sta scherzando? È questo il suo modo di fare colpo?
Feci un espressione che descriveva perfettamente quanto quella frase mi avesse colpita.
«E tu, ti sei fatto male quando sei caduto dal passeggino?» risposi.
Ci rimase male. Vidi che Jamaica aveva smesso di parlare con quell'idiota, le presi la mano e le feci segno di andarcene. Lei annuì. Vidi che Gabriel non smetteva di fissarmi, gli feci un sorriso forzato e, escludendo l'idea di andare al bar, per non ritrovarmi quei trogloditi davanti, mi diressi verso casa. Quando arrivammo a casa lanciammo le scarpe, ci gettammo sul letto e, in men che non si dica, ci addormentammo.

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