Chi sta male non lo dice

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Era un pomeriggio come tanti, il vento spazzava via le foglie di ottobre mentre noi parlavamo di musica, seduti in piazza Medaglie d'Oro, sulle panchine di marmo ingiallite che assorbivano il freddo e il calore dei nostri corpi vicini. In realtà c'eravamo rivolti la parola per la prima volta due settimane prima, alla manifestazione in centro organizzata dal Festival delle culture. Si parlava d'integrazione e di cittadinanza. Potevano intervenire tutti, salendo a turno sul palco. Un uomo con una camicia bianca di lino incoraggiava i presenti ad avvicinarsi porgendo loro il microfono. Poche persone però rispondevano al suo invito e altrettante restavano sedute ad ascoltare. Si fermavano per poco e subito dopo fuggivano senza vergogna verso le vetrine dei negozi. Ero arrivata nel momento preciso in cui tu avevi iniziato a parlare. Ti eri alzato in piedi rifiutando l'invito a sederti e con la calma e la fermezza dell'esperienza avevi detto "non ci lasceranno mai in pace ragazzi! Io l'ho imparato a scuola quando volevano farmi credere che il colonialismo fosse una cosa normale e gli omicidi di massa un effetto collaterale. Lo dice la storia, lo dice la terra dei miei genitori, le barche piene di affetti e speranze che affondano in mare. Lo dicono le catene ai polsi e al collo, il Belgio fondato sui tesori del Congo, Anversa e i suoi diamanti. Lo dicono gli spari della polizia e le corse di chi ha sperato per tutta la vita di arrivare in Europa quando la ricchezza l'aveva davanti agli occhi. Non ci lasceranno mai in pace, ragazzi!". Avevi ottenuto il consenso di tutti. I partecipanti applaudivano con entusiasmo, ti incoraggiavano. Tu ringraziavi stringendo mani e abbassando leggermente il capo per nascondere un sorriso soddisfatto. Due settimane dopo, tra quelle panchine in piazza, non sapevo se ti ricordassi di me. Fino a quel momento ero stata solo una delle persone che si erano complimentate con te il giorno del dibattito. Ma tu ti allontanasti dai tuoi amici e ti sedesti accanto a me. "Noi due ci conosciamo vero?" mi chiedesti con tono morbido e senza preamboli. "Non proprio" risposi sistemandomi la borsa tra i piedi, sotto la panchina. "Comunque io sono Ifem, piacere." Chinasti la testa da un lato per guardarmi meglio. "Piacere, Yannick!" Iniziasti a raccontarmi che partecipavi spesso a eventi come quello in piazza, che per te era fondamentale per poter provare a cambiare le cose "in questa società di addormentati". Parlammo anche dei Radiohead, di Lauryn Hill e di cantautori e gruppi italiani che non avevo mai sentito nominare."I Subsonica quindi non li hai mai sentiti?" chiedesti incredulo alzando improvvisamente il viso verso di me. "No, mai. È da quando sono piccola che mi rifiuto di ascoltare musica italiana. Però ti prometto che li ascolterò" risposi sorridendo. Ignorammo tutti, per un tempo sufficiente a capire che tra noi, se avessimo voluto, sarebbe potuto accadere qualcosa. Forse cercando di prendermi in contropiede, con tono deciso mi chiedesti "non hai il ragazzo, vero? Sei così bella e sei single perché?". Io replicai seria che non l'avevo mai avuto "perché c'è un abisso tra essere bella ed essere compresa" e tu senza darmi il tempo di finire mi domandasti "non dirmi che anche tu credi che la felicità sia un'altra persona?". Scossi la testa senza dire niente. Era un altro pomeriggio come tanti, quando noi, seduti sulle panchine di marmo ingiallite, ci scambiammo il primo bacio. Subito dopo, mi accarezzasti i capelli guardandomi negli occhi, per poi indicare la macchina posteggiata davanti a noi dove c'era un ragazzo con la testa china in avanti. "Ne vuoi un po'?" mi chiedesti con tono complice.Senza capire del tutto la domanda, scossi nuovamente la testa, e tu sorridendo ti alzasti, arrivasti davanti alla macchina e ti sedesti al posto del tuo amico. Sniffasti le ultime due piste rimaste sul cruscotto e poi tornasti di fianco a me senza dire più niente.Mi chiedevi di cercare i soldi per procurarti le buste in casa mia, nei cassetti e nell'armadio di mio padre. Lo dicevi e subito, appena cambiavo espressione, cercavi di farmi credere che stavi scherzando. Per non discutere, provavi a farmi sorridere senza renderti conto di quanta ipocrisia ci fosse nella tua dolcezza. Quando non riuscivi a procurartela, ingerivi sonniferi per attenuare il dolore e finalmente riposare. Una notte mi confessasti che c'erano giorni in cui ti alzavi dal letto e sentivi che non saresti riuscito a fare più niente senza.Quando stavamo bene, ridevamo senza ragione, parlando per ore, seduti per terra sotto i portici. "La mia ultima relazione è finita perché lei non riusciva a immaginarsi un futuro insieme a un drogato" mi raccontasti un giorno, appoggiando la testa contro il muro e facendoti improvvisamente serio. "Quando discutevamo, mi chiamava così per-ché sapeva che non lo sopportavo. E poi anche altre cose tra di noi avevano smesso di funzionare. Avevamo compagnie diverse, non le piaceva il fatto che partecipassi ai dibattiti, non salutava i miei amici quando li incrociava per strada. Si giustifica-va dicendo che eravamo diversi quando per me noi eravamo insieme uguali. Quando mi lasciò, iniziai a farmi tutti i giorni, anche in camera mia. Cosa che non avevo mai fatto prima. In realtà era più la paura di perdere un punto di riferimento che quella di perdere lei, perché l'abitudine solitamente ci fa accettare qualsiasi dolore, qualsiasi amore. Non mi ero reso conto o forse fingevo di non aver capito che noi eravamo solo il rimorso di ciò che non avevamo fatto e non avremmo più potuto fare." Non replicai. Era la prima volta che mi parlavi del tuo passato, qualche volta in maniera velata mi avevi accennato qualcosa, ma quel giorno intuii che le tue parole contenevano una verità che non volevi più nascondere. Molte volte parliamo del nostro passato e dei nostri problemi non per risolverli, ma solo perché abbiamo bisogno di sentirci ascoltati e compresi. E io volevo ascoltarti, volevo comprenderti. Misi la mano sulla tua e mi appoggiai con la testa nello spazio tra la spalla e il petto e iniziai a raccontare: "Dove abitavamo prima, di fronte a casa c'era un ristorante e quando festeggiavano un matrimonio c'erano luci, musica, fuochi d'artificio. Allora io e la mia famiglia ci sedevamo sul balcone e rimaneva-mo fermi a guardare. Io e mia cugina eravamo piccole e per noi quello era lo spettacolo più bello che ci fosse. Una sera, prima che ci mandassero a dormire, mia cugina che non parlava mai, senza spostare lo sguardo dai fuochi che illuminavano il cielo pesto disse a mia madre 'zia, anche io un giorno vorrei sposar-mi, sai? Però c'è una cosa che non ho capito: l'amore con il tempo aumenta o diminuisce?' Mia madre non seppe rispondere a quella domanda, nessuno ci riuscì quella sera. Negli anni poi, non ho mai avuto modo di scoprirlo e credo nemmeno mia cugina. L'amore che conosco è quello che ho visto nei miei geni-tori. Non ti voglio offendere, ma io credo che tu sia pigro, che se ami una persona come dicevi di amare quella ragazza, una rinuncia avresti potuto farla. Ma la realtà è che tu non ti rendi conto di quanto quella roba ti cambi e ti stia annientando. Dico sul serio. A volte mi fai paura. Sai? Mia madre, molti anni fa, mi disse che nella vita si incontrano persone che ci fanno credere che una relazione può durare per sempre e persone che ci insegnano che non ne durerà nessuna. E io sinceramente spero ancora che tu possa insegnarmi che si può anche essere felici insieme a qualcuno". Abbassasti lo sguardo verso di me, mi prendesti il viso tra le mani e socchiudesti le labbra per baciarmi. Lo facevi ogni volta che volevi cambiare discorso. Non eri disposto a rinunciare. Oltre a tirarla, qualche volta la fumavi, raggiungendo uno stato di euforia in pochissimi secondi per poi risvegliarti sudato e pieno di angoscia. Io ascoltavo tutto ciò che non riuscivi a dirmi perché spesso quando invece parlavi, lo facevi per contestare qualcosa e manifestare il malessere che covava dentro di te. "Ifem, non ci fermeremo finché non capiranno che non siamo neri che si sentono italiani, ma italiani neri" ripetevi continuamente. Facevo ogni cosa che mi chiedevi, anche quando pretendevi che le tue idee e le tue fissazioni assurgessero al rango di esigenze esistenziali imprescindibili. Col tempo poi però furono le droghe a fermarti, ad aprirti ferite che non si sarebbero risanate mai.

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