Chi sta male non lo dice

36.1K 906 43
                                    




Quando volevi scusarti, ti presentavi sotto casa mia senza avvertirmi. Sorridevi e ti comportavi come se tutto fosse sistemato, ma il mio cervello era in frantumi e il mio sguardo perso. Spesso eri rallentato nei movimenti e sembravi non provare alcuna emozione. Salvo le volte che avevi scatti di nervosismo, come quando tuo padre ti chiamava urlandoti contro che in casa erano spariti dei soldi. I tuoi amici ti chiedevano "come stai?" mentre se ne andavano, non ti cercavano quando scomparivi. Fumare le sigarette bagnate e tirarla ti aiutava a cacciare tutta la sofferenza che portavi dentro, a ignorare la verità su quanto fossi solo, che nei momenti di sconforto veniva a galla come i rifiuti in mare. Con la schiena appoggiata alla ringhiera, sotto casa, ci rendevamo conto che noi eravamo diventati un pezzo di quel marciapiede e di quella piazza senza speranze dove, con le mani affondate nelle tasche dei giubbotti, passavamo pomeriggi a fissare gli sguardi dei passanti. Tutto ciò che ci circondava, nonostante l'evidente abbandono, stava in piedi, senza irreparabili erosioni. A cadere a pezzi erano le persone prive di impalcature, schiave delle condizioni economiche al punto di attaccarsi al lavoro per rinunciare alla vita. Quando eravamo ragazzini, eravamo convinti che si potesse decidere di stare bene o stare male e quindi in ogni mo-mento sorridevamo ad alta voce mentre i nostri padri fingevano serenità agli occhi dei vicini e dei parenti. Chi non ci riusciva beveva fino ad annullarsi e alzava le mani sui figli e sulle mogli dietro imposte serrate come in piena estate. La gente sapeva e non faceva nulla, cancellava con indifferenza i rumori ostili che arrivavano da quegli appartamenti. Addosso avevamo tutti l'odore dei poveri e le scarpe consumate di chi è abituato a frenare in bici coi talloni. In quegli anni facevamo tante cose sbagliate, convinti che fossero giuste. Quella piazza era composta da sedicenni strafatti di storie, droghe, sensazioni radicate, errori, dettagli marginali che ci differenziavano l'uno dall'altro, perché non sapevamo relazionarci con chi era uguale a noi. Tu sostenevi che nella vita avevi sempre cercato di aver vicino persone capaci di prestarti parole che non conoscevi, che potessero trattarti come non credevi di meritare, raccontandoti cose che non eri in grado di spiegare. Dicevi in continuazione che non capivi quei gruppi di ragazzi dove tutti erano uguali anche nel modo di vestire. Ti chiedevi e immaginavi le loro conversazioni dove non c'erano scontri o divergenze ma solo false opinioni. "Ifem, fin da bambino, io ho sempre evitato di fingere amicizie inesistenti. Piuttosto stavo per i fatti miei. Nella mia fa-miglia tutti mi hanno sempre rimproverato qualcosa e io allora provavo a scendere a compromessi con me stesso limitando i lati di me che potevano risultare fastidiosi. Ma era inutile per-ché ogni volta ne trovavano altri. Ho capito poi, dopo tanti tentativi, che non dovevo per forza cambiare me stesso, che sa-rei stato più felice se mi fossi scelto un po' di più, ogni tanto." Stavamo rientrando a casa a piedi, io e te, a tarda notte. Potevamo anche essere scalzi che non ci avrebbe visto nessuno. Ci tenevamo per mano senza parlare. Rientravamo da un concerto acustico al Bronson dei Mellow Mood, era aprile ma sembrava di essere in piena estate al punto che entrambi avevamo allacciato la felpa alla vita. Riflettendo ad alta voce dissi: "Io ero d'accordo con mia madre solo sul fatto che non mi piacevo. Quando mi trovava chiusa in camera, mi chiedeva sempre 'perché non esci? Non hai delle amiche?' e io mi limitavo a guardare da un'altra parte senza rispondere. Attorno ai miei tredici anni, mio padre non c'era, era rimasto al Sud per motivi di lavoro. Vivevamo a casa di mia zia. Dormivo in un letto a castello che condividevo con mia cugina. Ricordo che per strada, solo perché mamma era sempre sola, i vicini pensavano fosse una prostituta. Quando si avvicinavano, lei mostrava la fede al dito e con un sorriso teso rispondeva "sono sposata". Qualcuno se ne andava, altri insistevano domandando 'quanto vuoi?'. Mio padre era un uomo fortunato, mia madre non l'avrebbe sostituito con niente e nessuno. Lei era una donna bellissima, papà invece aveva un volto scavato, alternava scatti di gioia a malumori improvvisi". "Perché non avevi amiche?" mi chiedesti interrompendomi. "Non ne avevo perché mi sentivo a disagio tra gli italiani. Anche quando mi trattavano bene, mi facevano sentire diversa con le loro domande stupide. Non riuscivo a essere me stessa con loro. Le mie coetanee non capivano le mie esigenze, loro ave-vano altro a cui pensare mentre io cercavo di scoprire più cose possibili sulla mia identità e le mie origini. Davanti allo specchio, mi toccavo i capelli. Sapevo di essere diversa dalle altre, ma non mi sentivo così. Le prime serate nei locali ho iniziato a farle con mia cugina, durante i primi anni di liceo, e con quelle sono arrivati i primi tentativi di amicizia e di stare in un gruppo, sono arrivati i primi ragazzi che si avvicinavano a me e che dopo poco tempo lasciavo con un messaggio o smettendo di salutarli. Forse avevo solo paura, facevo così perché non volevo scoprire sulla mia pelle che gli uomini erano tutti uguali, come diceva mia cugina." Tenevi gli occhi fissi sulla strada e prima di guardarmi di nuovo facesti una smorfia. "Prima di te, tutte le ragazze con le quali sono uscito mi hanno sempre detto che gli uomini sono tutti uguali, come diceva tua cugina. Allora io ho provato a capire in cosa ero uguale agli altri e mi sono messo di impegno, provavo a essere più attento quando la mia ragazza mi parlava, a guardarla dormire quando si addormentava, provavo a baciarle la schiena e a restare calmo quando era nervosa e lei stessa si definiva intrattabile. Una volta mi presentai pure al bar dove lavorava per farle una sorpresa e ne rimase contenta, ebbi questa impressione. Mi abbracciò posando la guancia sul petto. Ma poi l'ho vista tornare da chi disprezzava, da chi ve-deva in lei solo le forme e non le forme di pensiero, l'ho vista trattarmi come avevano fatto con lei in passato, facendomi pagare errori che avevano commesso altri prima di me. E ho capito che non è vero che siamo tutti uguali, siete voi a scegliere uomini tutti uguali." Soffiava un vento caldo e avvolgente, lontano contro il cielo si intravedeva la linea tracciata dalle onde del mare. Amavo ascoltarti, l'avrei fatto per ore e mentre mi parlavi ti guardavo. Ti guardavo come si guarda qualcosa che si sa già che ci mancherà. Troppo esile e indeciso per durare. Un punto fermo che non c'è. Ti guardavo come si guarda il tramonto, come quando per strada d'inverno si cerca il mare dal finestrino della mac-china. Ti guardavo come si guarda un treno appena perso, sperando ancora che si fermi e che si aprano le porte. Ti guardavo non perché eri bello, non perché eri tutto, ma perché sentivo di avere molto di più. Ti guardavo perché non è vero che la felicità siamo noi stessi.





Segui su Instagram: AntonioDikeleDistefano

Chi sta male non lo diceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora