Avevo un'amica un tempo. Keila portava sempre i capelli raccolti. Erano tinti ma non del tutto. Veniva da Buenos Aires, quando parlava non pronunciava bene la lettera "V". Al posto di dire "va bene" diceva "Babene". Io ascoltandola sorridevo e lei senza capire mi chiedeva con sguardo innocente "cosa ridi?". In poco tempo entrammo in confidenza e io le raccontai di te, mentendo le dissi che era tutto sotto controllo e potevi smettere quando volevi, che mi amavi tanto e mi promettevi baci, che poi non mi davi. E lei, intuendo tutte le mie difficoltà della nostra relazione, mi diede questo consiglio: "Innamorati di chi mette in pratica ciò che dice" e poi mi chiamò "amica mia". Fu la prima e l'ultima volta che qualcuno mi chiamò così. Parlavi solo tu e quando provavo a confidarti cosa si nascondeva nei miei silenzi messi come virgole tra una parola e l'altra, annuivi e riprendevi da dove era rimasto in sospeso il tuo discorso. Quando non ti facevi, ci drogavamo di rumore, delle tue parole, di te che ti innervosivi per niente. Dovevo smetterla di parlarti come se tu fossi interessato ad ascoltarmi. Le tue erano conversazioni con te stesso, così come i tuoi discorsi infiniti sull'integrazione e la pelle nera che dopo un po' stufavano perché erano sempre gli stessi. "Ifem, ascoltami, dài. Guarda che a noi non è stato insegnato a essere neri, è stato insegnato a loro a chiamarci così. Ci nutriamo di etichette, le accettiamo e accettiamo di averne una. Tutte queste persone, i miei vicini di casa e anche i miei amici non hanno ancora capito che questa è solo la mia pelle e non determina proprio un bel niente. È come confondere la vettura con il pilota e credere che siano la stessa cosa, perché quando mi dici che ho una bella macchina non mi stai dicendo che sono una bella persona e viceversa. L'errore sta nel non vedere nelle persone che sono solo persone." Ti ascoltavo persa, infelice ma incapace di mettere un punto e andare a capo. L'amore vero era rimasto solo nelle linee immaginarie che tracciavo sulle tue labbra quando dormivi. C'erano pomeriggi in cui ridevo reprimendo la voglia di tirarti un pugno e sputarti addosso. Anche io avevo le mie ferite, i momenti in cui volevo piangere in pace, lontano da chi come te mi chiedeva solo, senza darmi niente. Mi facevi male e io ti chiedevo scusa. Cercarti quando non avevo i soldi che volevi non era che un modo per maltrattarmi. Facevamo l'amore e subito dopo mi si chiudevano gli occhi e tu prendevi le tue cose muovendoti appena, socchiudendo la porta alle tue spalle. Mi svegliavo, ti raggiungevo a casa quasi di corsa per paura di perderti. Mi facevo a piedi tutta quella strada per non sentirmi dire niente di importante o che mi facesse sentire apprezzata.Segui su Instagram: AntonioDikeleDistefano
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Chi sta male non lo dice
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