-02

37 2 0
                                    

È lunga. Non si onde amarla o odiarla. Forse sono rimasti i residui di scrittura vuota, troppo semplice, ma boh.

Le coperte buttate per terra, tessuto sparpagliato per il pavimento insieme al cuscino, che giace accanto alla scrivania. Io in piedi, ad osservare lo spettacolo della rabbia, il baratro della follia nella quale ero entrato qualche anno prima e dalla quale non ero mai uscito.
La solita disperazione, mi portò alla distruzione di ciò che per me era tutto: la mia stanza, il mio rifugio.
Sono le 7:45 del mattino. L'aria è fresca ed entra dalla finestra con cortesia, come se dovesse chiedermi il permesso. _Prego, entra e gela il tempo e il mio corpo_.
In cucina, appoggiati al davanzale della finestra, mio padre e Tom, mio fratello, parlano. Sussurrano come se stessero pregando. _Oh dio entra nella mia casa e caccia quel demone che è mio figlio_.
Non mi vedono, guardano oltre il vetro sporco, quel paesaggio vuoto e pallido che era la mia città.
Con la sua voce pallida mio padre dice:

-Che vuoi farci Tom? Gi passerà.

Tom risponde dopo aver poggiato le labbra alla fumante tazza di tè ed aver preso un sorso.

-È passato troppo tempo già.

Appoggiato allo stipite della porta, riesco a capire tutto. Ciò che è successo stanotte, ciò che successe altri giorni, ricordo tutto alla perfezione, come se in quella cucina ci fosse un muro tra me e loro, un muro mattonato e ruvido, dove ogni cosa è proiettata, ogni singolo atto di follia.

Mi avvicino a loro e mi schiarisco la voce, per far sì che si accorgano di me, e per buttare giù il groppo alla gola. Non era catrame, era dolore.

-Avete qualcosa da dirmi?

La mia voce esce lenta e calma, non era così che doveva suonare. Loro tacciono, il vecchio panciuto mi guarda con gli occhi sbarrati, cerchiati da rughe, mentre quel bastardo di mio fratello resta con la bocca socchiusa e lo sguardo serio, che sembra squadrarti nel profondo, ma è solo impressione.
Annuisco.

[...]

Le gambe non mi reggono più in piedi, e il venticello che prima entrava cauto nella mia camera, la mia base militare, il mio castello, adesso sembrava volermi aggredire e buttarmi giù.
La tendina viola, appesa sopra la finestra, filtrava la fioca luce del triste e nuvoloso cielo, e la rendeva piacevole, ma quest'inganno durava solo quando ero dentro il mio rifugio. Non ha mai funzionato davvero. La tendina era buttata per terra, nella mia stanza, coperta dalle lenzuola.
La città è vuota, non so neanche che giorno è. Il cielo è tenebroso e grigio come sempre, come mai l'avevo visto dalla finestra della mia stanza.
Ho camminato un po', ho fumato una sigaretta, sperato che fosse tutto un sogno, uno sporco sogno ostile, ma no. È la vita, con troppe speranze in superficie ma nel profondo, oscurità. Noi uomini raschiamo la superficie, prendiamo i nostri desideri in mano, pesano ma sono vuoti, solo illusioni.
Le ossa delle mie gambe sembrano spostarsi ad ogni passo, le dita delle mie mani, staccarsi e cadere.
Io mio viso serio che nasconde dietro un'altra espressione, di dolore, con il naso storto, le labbra verso il basso, gli occhi socchiusi, il perfetto mostro, un ibrido che la gente non vuole vedere.
Mi siedo in una panchina di ferro, in un grande parco, mentre le parole di quei due lupi riecheggiano nell'aria.
Sono stanchi, beh anche io. Stanco, l'unica parola che mi viene in mente, l'unica che riesce a rappresentare ciò che sento.
Stanco...
Non so quante ore sono stato nel parco, forse tante, troppe per tornare a casa, non è mai ora di tornare a casa.
Una figura, la prima che vedo passare in queste ore, si avvicina a me.
Una voce roca, un viso da schiaffi e prese per il culo.
Lo conosco. Andavamo a scuola insieme, una volta. 

-Hai un accendino?

Mi guarda con distanza, lui è qui ma non è davvero qui.
Sembra quasi spaventato dalla mia figura, lo guardo per un paio di secondi prima di rispondere.

Tisane & UraganiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora