•Thinking•

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Era li, immobile, con gli occhi spenti.
Fissava le nuvole dalla finestra della sua stanza d'hotel a New York.
Aveva lo sguardo perso e la testa altrove, era immerso nei suoi pensieri e nulla sarebbe riuscito a distogliere la sua mente da essi.
Pensava a tutto ciò che era successo in quell'ultimo anno.
Pensava a tutti gli errori commessi.
A partire dal fatto che aveva lasciato lasciato la scuola che stava frequentando a gennaio, appena compiuti diociannove anni, appena arrivata la lettera dall'Agenzia americana che si occupava di "testare e vendere" dei farmaci sperimentali.
Ora ne aveva venti e lavorava per quell'agenzia, si occupava del trasporto di sieri e medicine in via di sviluppo.
Era sempre in viaggio.
Un giorno qui, un giorno li.
Ora New York.
All'inizio era stato strano per i suoi colleghi più grandi accettare l'idea che lui, a soli diciannove anni, fosse riuscito a procurarsi un lavoro come quello.
Non era una mansione da poco, anzi, era piuttosto importante e ben retribuita.
Aveva studiato tutto quel tempo per trovare QUEL lavoro.
Rappresentava la compagnia medica durante i congressi e, nonostante avesse solo vent'anni, aveva fatto capire ai suoi superiori che lui era nato per questo.
Aveva un dono.
Sapeva parlare con le persone, convincerle di qualsiasi cosa lui avesse voluto. Sapeva tranquillizzarle e capirle, per poi consolarle e svolgere il proprio lavoro.
In solo due mesi, a fine marzo, era conosciuto e rispettato da una quantità immensa di persone, tra colleghi e cittadini qualsiasi che dovevano a LUI un grande favore.
Era così intelligente, preciso, brillante, infallibile.
Era anche un ragazzo di bell'aspetto, col viso ordinato, gli occhi chiari, i capelli scuri, lisci e ben curati.
Vestiva sempre elegante, giacca e cravatta, come un uomo d'affari.
In parole povere, era una sorta di "fattorino", solo molto più importante e al posto di portare pizza, portava la speranza di una salvezza.
Era sempre calmo e sorridente.
Lo era stato per molto tempo.
Eppure, in quel istante, davanti alla finestra, era nel panico più totale.
Nella sua testa c'era lei.
Era nella sua mente e NULLA l'avrebbe fatta uscire.
Aveva gli occhi spenti, quel loro solito color verde brillante era coperto da una sorta di riprovero verso se stesso, sapeva ciò che aveva fatto e se ne era pentito. Non avrebbe dovuto farlo.

Lui era Shawn Pierce, il ragazzo d'oro col dono di saper parlare alle persone.
Lei era Elisabeth Dollie, la ragazza amata da Shawn.
Lei era bella, davvero bella.
Aveva una chioma di lunghi capelli castani, lisci come la seta e profumati come le rose.
Aveva un viso delicato, le guance morbide e sempre arrossate, le labbra candide e rosee.
Aveva 18 anni, Elisabeth..
Loro erano stati tutto, il loro amore era qualcosa di unico, quasi indistruttibile.
Ma quella malattia, l'unico imprevisto, aveva rovinato tutto.
Shawn aveva fatto tutto il possibile per salvarla e ci era anche quasi riuscito.
Ma uno stupido errore nella composozione chimica del vaccino aveva, sfortunatamente, accelerato il processo di sviluppo della malattia.
Era morta a 18 anni, Elisabeth..
E Shawn era crollato, come ogni cosa appartenente al loro mondo.

Inizialmente aveva incolpato quella stupida malattia.
Poi aveva incolpato il professore che lo aveva aiutato a comporre il vaccino.
Poi aveva incolpato Elisabeth, per aver contratto quella maledetta malattia.
Infinine si decise di incolpare se stesso, per non essere riuscito a creare un nuovo vaccino in tempo.
Era colpa sua.
Per colpa sua era tutto perso e ora stava crollando di nuovo, dopo 6 mesi dalla sua morte.
Stava crollando fissando le nuvole, il cielo, i palazzi di New York, le luci delle auto e quelle che provenivano dalle fimestre deglo stessi palazzi.
Era crollato, tenendo in mano quella bottiglia di liquore mezza vuota, tenendo l'altra mano sulla finestra, immaginando di toccare quella di Elisabeth.
Era solo un ragazzo, Shawn.
Non era pronto a tutto questo.
Non lo era affatto.
Non sapeva come aveva resistito fino a quel momento senza di lei, non sapeva come avesse fatto ad andare avanti nel suo lavoro senza di lei.
Nom sapeva come aveva fatto a vivere la vita fino a quel momento, senza di lei.
Aveva bisogno di lei.
Ne aveva un bisogno immenso.
Necessitava di sentirla accanto e si illideva che l'alcool avesse potuto farlo.

Poggiò la semivuota bottiglia di liquore al pavimento, vicino al letto, nel caso durante la nottata avesse sentito il bisogno di berne ancora un piccolo sorsetto, per poi cadere sul letto e lasciarsi trasportare dal sonno leggermente più vicino alla sua amata.
Durante la giornata seguente sarebbe dovuto ripartire, lasciare New York per andare in Inghilterra, a Londra.
Avrebbe tenuto una conferenza su un nuovo tipo di vaccino, l' U.S.M., " under-skin microbot".
Sarebbe stata una rivoluzione per il campo medico, avrebbe risolto il 97% delle malattie sconosciute grazie alla nuova teconologia che Shawn aveva creato.
Una sorta di "analisi e distruzione" delle particelle infette, solo che non sarebbero stati i medici a doverle svolgere, bensì sarebbe stato l' U.S.M.
Era la scoperta del secolo e Shawn era stressato, ansioso e nervoso.
I pensieri su ciò che era successo ad Elisabeth non lo avevano affatto aiutato.
Ma nonostante tutto, in un modo o nell'altro, era riuscito ad addormentarsi e a rilassarsi per tutta la durata della notte.

Ma in quel momento non sapeva che la giornata seguente sarebbe stata anche l'ultima della sua vita e che tutte le sue ricerche e tutti i suoi sforzi sarebbero andati persi persi sempre.

Ako, 28 ottobre 2016

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