Perché?

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Eravamo lì, entrambi fermi su quella panchina di legno. Io non osavo parlare e lei neanche. Non riuscivo a sostenere lo sguardo di occhi imperlati di lacrime:-Tra noi non può funzionare...- mi aveva detto singhiozzando. Non volevo però pensare a quella frase e a tutte le domande che ne derivavano. Cominciai a osservarla cercando di non incrociare il mio sguardo con il suo. Le pallide e magre guance erano coperte da una sciarpa viola, un colore che mi trasmetteva tanta tristezza, forse perché scuro o forse perché era lei a indossarlo. Lentamente abbassai lo sguardo e notai che le sue piccole e delicate mani arricciavano nervosamente il vestito rosso sotto il seno. Abbassò la testa e i lunghi capelli arancioni le scivolarono sulle gambe. Vidi i suoi collant bagnarsi di lacrime. Volevo dire qualcosa, era stata lei a lasciarmi, perché era lei a piangere? Le alzai la testa e la guardai dritta negli occhi, non so perché lo feci ma fu l'errore più grande della mia vita. Il suo volto era completamente bagnato. I suoi vivaci occhi azzurri ora erano freddi come il ghiaccio e mi fecero cadere nello sconforto più totale. Si sforzò di smettere di piangere e silenziosamente iniziò a singhiozzare. Si buttò su di me e mi strinse in un abbraccio che mi tolse il fiato. "Come puoi farlo?" pensai: "Come puoi abbracciarmi adesso?".

Il mio pensiero fu interrotto dal profumo dei suoi morbidi capelli raccolti in due trecce che scendevano sino ai fianchi. Continuava a stringermi ma io rimanevo immobile, non osavo neanche pensare di abbracciarla. Così, lentamente, mi strinse sempre meno forte sino a lasciarmi. Mi guardò un'ultima volta in maniera fugace. Poi si strinse nel cappotto di pelle nero e fece per alzarsi ma allungai la mano, le afferrai il polso e lo strinsi tanto forte che ebbi paura di spezzarlo tanto era piccolo. La guardai dritta negli occhi con uno sguardo che quasi certamente la spaventò. Non mi aveva mai visto così distrutto. Dissi solo una piccola frase:- Gaia... perché?- lo dissi con un filo di voce e subito dopo le lasciai il polso. Non osò guardarmi, non rispose, abbassò la testa e sparì nella la nebbia del parco.

Io rimasi lì, a logorarmi, cercando di rispondere a domande che rimasero senza risposta. Perché lo aveva fatto? Non sapeva che mi avrebbe distrutto? Non sapeva di essere tutto il mio mondo? Non glielo avevo ripetuto abbastanza? Come avrei fatto a sopravvivere? Come l'avrei dimenticata? Come avrei cancellato tre anni della mia vita in cui avevo sacrificato tutto? Mi scoppiava la testa , non riuscivo a ragionare. Mi aggrappavo ai ricordi. Esistono di tanti tipi di ricordi: quelli felici, quelli tristi, quelli da"è meglio che sia andata così". I miei però erano della peggiore specie, erano di quelli che ti fanno spuntare un sorriso sulle labbra che qualche secondo dopo diventa una lama che ti fa così male da farti piangere. Arrivi al punto che per non sorridere cerchi di dimenticare, e occupi la mente ascoltando musica, guardando film e facendo diventare il computer il tuo migliore amico.

Nei giorni che seguirono quell'evento provai sentimenti contrastanti. Prima una rabbia ingiustificata, poi una grande tristezza che mi soffocava, che non mi faceva vivere. Iniziai a fingere malamente di essere sereno per tranquillizzare genitori e amici ed eludere le loro continue domande dettate dalla preoccupazione. Iniziai a non studiare, mangiavo sempre meno, uscivo raramente sino al momento in cui non decisi di farla finita. Il senso di ignoranza mi soffocava. Non riuscì ad uccidermi, ci provai due volte. La prima volta non ebbi il coraggio di far scorrere quella lama in verticale sul mio polso ma la seconda volta ci riuscì ed ero davvero felice. Feci però l'errore di non chiudere a chiave la porta e mia madre, mentre ero privo di sensi, la aprì e (mio malgrado) riuscì a salvarmi portandomi in ospedale. Dopo questo atto estremo i miei decisero di mandarmi in un ospedale psichiatrico come gli stessi medici avevano consigliato. Secondo loro era pericoloso per me vivere in casa come le "persone normali" e, per quanto l'idea mi facesse rivoltare lo stomaco, non mi opposi. Lo feci solo per mia madre. Non volevo distruggere la sua vita, quindi pensai di cercare di farla stare meglio dandole l'illusione di poter tornare quello di prima. In cuor mio però ero certo che quella persona non esistesse più, ne ero davvero certo. Avevo provato a ritrovare il mio "vecchio me" ma avevo preso atto che era andato via con Gaia.

Lei è l'alba dopo il tramontoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora