Un istante per tornare a vivere

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Ci sono momenti in cui ci si sente persi e l'ultimo luogo dove si ha voglia di riafferrare la propria vita è un ospedale. Ma si sa che la vita è imprevedibile e non sa mai cosa riserva. La storia di Elisa e Giacomo, che si incontrano in quell'unico posto dove credono che la sola cosa che esiste è la sofferenza, ma dove, invece, si può trovare bene altro, forse la vita stessa.


La gente va avanti, passa oltre un ostacolo, un rapporto fallito, un progetto andato in fumo, un licenziamento, una partenza forzata, un addio. La gente va avanti, ma tu resti bloccata lì, in un tempo indefinito, senza capire né sapere cosa e come fare. Medici e infermiere indaffarate ti passano sotto gli occhi, odore di disinfettante e medicine da respirare e sembra non scalfirti nulla.

Sono tre mesi che faccio questa vita, vedo sempre gli stessi muri, le stesse facce, sento gli stessi odori e nessuna cosa sembra avere importanza. Bloccata, come se in coma ci fossi io e non mia sorella. Un incidente. Nemmeno ho capito bene come è avvenuto e siamo qui, io e lei, in una stanza di un ospedale, reparto rianimazione. Lei immobile distesa su un letto, circondata da una serie di "bip", gli stessi "bip" che sembravano assordarmi i primi giorni e ora nemmeno ci faccio più caso. Mi sono abituata ed è triste. Mi sono abituata a questa immobilità, a questo scorrere del tempo invisibile, a questo odore, a questi "bip" ed è triste e sono triste. Siamo sole, io e mia sorella. I nostri genitori sono morti molti anni fa e noi abbiamo imparato a bastarci l'una a l'altra, a essere l'una la famiglia dell'altra e adesso siamo qui. La nostra casa non è nemmeno più casa nostra. Ci torno solo per dormire qualche ora e fare una doccia e poi torno qui. Per fortuna il mio capo mi ha concesso un'aspettativa e resto qui tutto il giorno in attesa che mia sorella si svegli. Mi sento come in un limbo, senza sapere dove andare e cosa fare.

"Buongiorno, deve uscire." Mi comunica fredda un'infermiera. Questa è quella antipatica. Per fortuna è la sola, insieme a due o tre dottori. Troppo spocchiosi, troppo altezzosi, troppo iosonoaldisopradituttoetutti per occuparmi dei sentimenti di quelli che stanno qui, non certo per piacere. Vorrei spiegar loro che di certo non abbiamo scelto io e mia sorella di venire qui. Sbuffo uscendo. In questi tre mesi ho visto di tutto e incontrato gente di ogni tipo, ma anche questo non mi ha sfiorata. Nulla mi interessa. Io sono immobile come mia sorella in quel letto. Scendo al bar a prendere un caffè. Odio vedere gli altri familiari che escono dalle stanze come quella di mia sorella, con occhi arrossati e stanchi, distrutti, proprio come me, sarebbe come specchiarsi e io non voglio vedermi. Per questo non ho fatto amicizia con nessuno. Non voglio trovare legami qui, in questa condizione. Vorrei dimenticare tutto presto. "Ma che ci fai qui?" chiede la barista a un ragazzo che si avvicina al bancone, mentre io osservo la scena con il mio caffè in mano, seduta a uno dei tavoli. "Sorpresa!" Dice felice lui e scoppiano a ridere. Mi ritrovo a sorridere anch'io. Sembra come vedere uno spicchio di normalità in un posto che di normale ha poco, uno spruzzo di felicità dove c'è solo tristezza. Finito il caffè pago e faccio per uscire, ma il ragazzo al bancone si gira e si scontra con me, facendomi cadere a terra. "Oh, mi scusi." E mi porge una mano, mentre l'altra la tiene ben stretta al corpo, nascosta dal giubbotto. La afferro e mi alzo da terra, mentre i suoi occhi non smettono di studiarmi. Sollevo il capo e incrocio due splendenti occhi verdi, capaci di rapire tutta l'attenzione. "Sta bene? Mi scusi ancora." Scuoto il capo "Non si preoccupi, va tutto bene." le nostre mani restano l'una nell'altra "È sicura di stare bene? Mi sembra così ..." spalanco gli occhi, sento un leggero rossore alle guance e poi lo guardo accigliata, offesa. Cosa voleva dire? Stanca, spossata, malata, triste? Sono tutte queste cose e molto altro, ma lui, uno sconosciuto, non ha certo il diritto di dire, fare o pensare qualsiasi cosa su di me. "Sto bene." dico risoluta ed esco a passo spedito sbuffando. Quasi di fronte alla porta che conduce alle scale una mano si poggia sulla mia spalla "Mi scusi." Poi scivola e mi prende per il polso facendomi girare, senza mai forzare, sorprendendomi con tanta delicatezza. Mi ritrovo a fissare gli occhi verdi dello sconosciuto del bar e nuovamente mi sento terribilmente attratta, rapita. "Mi scusi per prima, non avrei dovuto. Non solo l'ho spinta e fatta cadere a terra, ma mi sono permesso di ... Ahi!" Qualcuno lo ha spinto da dietro, colpendolo sulla spalla e facendolo scontare con me. Per non sbilanciarsi e pesarmi addosso, lascia il mio polso e poggia la mano sulla parete che mi sta dietro. Mi ritrovo così costretta in uno spazio piuttosto ristretto, tra la parete e il suo corpo. Un profumo di fresco, limoni mi sembra, mi arriva al naso e poi alla testa, stordendomi leggermente. Imbarazzata lo guardo e ritrovo i suoi occhi ardenti fissarmi, studiarmi, e un leggero sorriso a disegnare le labbra già perfette. "Ecco, non ne combino una giusta." Si stacca dalla parete, non allontanandosi però molto da me e si porta la mano a tastare delicatamente la spalla colpita. Seguo i suoi movimenti e solo ora mi accorgo che non la muove e che ogni leggero strofinio corrisponde a una smorfia di dolore sul suo viso. D'istinto, circondo con le dita il polso dell'arto sano per fermarlo. "Cosa hai fatto?" Lui si blocca e ritorna a guardandomi, sorridendo un po' imbarazzato. Mi ripeto mentalmente le parole pronunziate e mi rendo conto di aver commesso due errori: 1. Mi sono rivolta a lui dandogli del tu 2. Mi sono impicciata dei suoi affari, facendo quello che lui ha fatto poco prima con me e per questo guadagnandosi il mio cipiglio. Abbasso gli occhi mortificata "Mi scusi, non avrei dovuto essere invadente con lei." Cerco di riparare ai miei errori. Mi solleva il mento con due dita, sempre delicato, e ritorna a studiare il mio viso. "Non si preoccupi e devo dire che non mi dispiace che mi abbia dato del tu. Se me lo permette vorrei poterlo fare anch'io." Annuisco rapita nuovamente dal colore dei suoi occhi. Ora che li osservo meglio, a una distanza piuttosto ravvicinata (e questo mi causa parecchi problemi cardiaci), si possono notare delle sfumature più scure, marroni, immerse in un verde che ricorda molto i prati in primavera. "Bene, mi chiamo Giacomo." E mi porge la mano. Mi ritrovo nuovamente a stringerla e mi trovo colpita dalla straordinaria delicatezza che sembra accompagnare ogni gesto di quest'uomo. "Sono Elisa." Il leggero sorriso sulle sue labbra si accentua, senza che le nostre mani si lascino. Poi lui, come scosso da qualcosa, abbandona la stretta e un po' imbarazzato si passa la mano tra i capelli ricci neri, scompigliandoli leggermente. "Sono un poliziotto e in una sparatoria mi hanno sparato ferendomi alla spalla." Lo guardo sconvolta e terrorizzata "Non preoccuparti, per fortuna è finita bene. Una ferita non profonda, che però ancora mi da un po' di fastidio e che mi ha costretto a stare qualche giorno in ospedale e a un forzato periodo di riposo." Fa una smorfia di disappunto. Deve piacergli molto il suo lavoro. "Oggi sono venuto per un controllo e mi hanno detto che la guarigione procede bene. Sono stato fortunato." Ritorna a sorridere e di conseguenza lo faccio anch'io. Ha un bel sorriso. Un gruppo di medici e infermieri di corsa ci passa accanto e questo mi riscuote, ricordandomi dove sono e perché. Giacomo mi ha fatto perdere la cognizione del tempo e dello spazio. Per la prima volta in questi tre mesi ho dimenticato per un attimo mia sorella, l'incidente, il coma e il tempo sembra essersi fermato non perché la mia vita si è fermata con lei la sera del suo incidente, ma perché ho passato pochi minuti in compagnia di una persona molto piacevole. L'angoscia mi pervade e mi sento terribilmente in colpa di aver abbandonato mia sorella, di averla dimenticata. Che diritto ho io di vivere se lei è immobile? "Elisa, stai bene?" Ritorno a guardare Giacomo. In realtà non ho mai smesso di farlo, ma era come se non ci fosse, come se i miei occhi non lo vedessero veramente. Mi scruta preoccupato. Annuisco, nascondendo, senza riuscirci, un singhiozzo. Giacomo mi guarda sempre più preoccupato e cerca di scorgere i segni del mio dolore. "Sto bene. Mi spiace, Giacomo, devo andare. Mi ha fatto piacere conoscerti e ti auguro di guarire presto. Buona vita." E scappo su per le scale, sentendo appena la sua voce chiamarmi per un'ultima volta.

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