Capitolo V

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EMILY
Casa di cura San Michele

La ricordo alquanto bene la prima notte dopo lo schianto.

Quando toccai il suolo assieme ai pezzi distrutti dell'aereo, non passò molto tempo che udii una richiesta d'aiuto, proveniente da sotto alcune lamiere non lontane da me.

Mi avvicinai, ero stupita di trovare qualcun altro vivo oltre a me e fu lì che trovai April.

Il suo viso era decisamente pallido, aveva un colorito quasi bianco cenere, le sue labbra erano un misto di sfumature tra il blu e il viola e sulla fronte vi era una grossa ferita ricoperta di sangue.

Sollevai l'ultima grossa lamiera che aveva ancora sul corpo e notai che, nell'arco di pochi secondi, riprese a respirare.

Non me n'ero resa conto subito che, in realtà, il viso pallido e le labbra viola non erano dovute solo alle rigide temperature, ma anche al fatto che non stava respirando.

Quante, quante volte mi aveva ringraziata per averle salvato la vita.

Davvero troppe volte, non meritavo di ricevere così tanto riconoscimento.

Ricordo molto bene il momento in cui, sotto la pioggia battente, circondate solo dall'oscurità della foresta e dai lampi e dai tuoni della tempesta, vidi la "grotta", così come la chiamavamo noi.

Appena la scrutai, seppur fosse molto buio, capii subito che le sue dimensioni erano assai misere, che non avremmo mai potuto entrarci insieme e che una di noi avrebbe dovuto accontentarsi di dormire sulla terra fredda e bagnata, all'aperto.

Decisi di essere io quella persona.

Era alquanto evidente che le sue condizioni erano decisamente peggiori delle mie.

Aveva bisogno di riprendersi, di stare al coperto e di ricevere più calore possibile.

Quando si accovacciò all'interno della grotta, pareva così piccola e indifesa, quasi come una bambina accoccolata nel suo nascondiglio segreto.

C'era qualcosa in lei che, dal primo momento in cui vidi i suoi occhi, pieni di lacrime e supplicanti aiuto, suscitò in me una strana sensazione, come un obbligo. Mi sentivo in dovere di aiutarla e di proteggerla.

Dalla ferita sulla fronte usciva ancora molto sangue che le bagnava il viso.

Cercai di fermare l'emorraggia subito, non appena la trovai sotto le lamiere, ma invana, in quanto il flusso di sangue non cessò minimamente di fuoriuscire dalla ferita aperta.

Il sonno stava prendendo il sopravvento su di me, ma non potevo dormire, non potevo lasciare che quella ferita continuasse a sanguinare, Hazel sarebbe morta dissanguata prima del sorgere del sole.

Non avevo nulla, niente fazzoletti, niente garze, niente di niente.

Per di più, le regole di primo soccorso non erano proprio il mio forte e questo mi rendeva ancora di più senza via d'uscita.

Vidi il sangue scorrere lungo la fronte, le guance e il mento, fino a raggiungere il collo e mi sentii terribilmente impotente davanti a ciò.

Avevo molta paura per lei, per un attimo mi immaginai che, al mio risveglio, di quel corpo caldo e vivo, non fosse rimasto altro che un corpo freddo e vuoto, privo di anima e di vita.

Scacciai i pensieri, quel tipo di pensieri e mi concentrai su qualcosa di più produttivo, ossia un modo per evitare ciò che avevo immaginato.

Ci pensai a lungo e, fortunamente, mi venne un'idea.

Colpa di un disastro Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora