Prendo un profondo respiro, prima di aprire la porta dell'ufficio.
I due stanno già tranquillamente chiacchierando.
Osservo la figura dell'uomo, così fisicamente simile a me da darmi il voltastomaco. Non appena la signora Gandly mi nota, mio padre si alza in piedi, allisciando con la mano la giacca pregiata. Non un sorriso sul suo volto, caratterizzato solo da pura apatia.
Ma d'altronde, la mia espressione è identica.
"Quindi, Lei è d'accordo a lasciare qui suo figlio per le vacanze?"
Mio padre si schiarisce la voce, prima di proferire parola.
"Se è questo ciò che lui desidera, sì."
Sorrido amareggiato. Come se fossi l'unico a volerlo.
"Allora ho bisogno di una sua firma qui" poi, fissandomi, "Anche la tua, proprio accanto."
Passa una penna stilografica a mio padre, che firma il foglio senza neanche leggere cosa ci sia scritto sopra. Ripeto l'azione, passando poi il tutto alla psicologa.
"Bene, vi lascio un attimo da soli. Quando hai finito, avvertimi. Sono nell'ufficio del dirigente."
Annuisco, mentre la osservo stringere la mano di mio padre, sorridente.
Non appena lascia la stanza, il silenzio cade gelido.
Non riesco a guardarlo in faccia, per cui mi concentro su una palla di vetro posata sulla scrivania.
"Quindi, Daniel, come ti trovi qui?"
Che faccia tosta!
"Bene. Tu?"
Incrocia le gambe, prima di rispondere.
"Bene. Partirò per le Bahamas dopodomani, quindi se chiamerai nel numero di casa, probabilmente non ci troverò nessuno."
E cosa me lo dice a fare? Dopotutto, nelle settimane in cui sono stato qui, non ho mai ricevuto una chiamata. Né ne ho fatte io.
Quando capisce che non accenno a commentare, sospira, quasi scocciato. Poi si rimette in piedi.
"In caso ti chiamo io." Afferma, quasi stesse dicendo la verità.
"Buone vacanze." Gli auguro, poi esco dall'ufficio, lasciandomelo alle spalle.
Inizio a camminare per il corridoio, la testa pesante, cercando l'ufficio del direttore.
Non appena lo identifico tramite una targhetta posta sulla porta, faccio per bussare, ma ciò che vedo mi lascia incredulo.
Dalla porta semichiusa vedo la signora Gandly baciare il padre di Chris.
Oh Cristo.Faccio per bussare alla porta della camera, ma Chris mi anticipa, aprendola.
"Hey."
"Ciao." Lo saluto, entrando dentro e togliendomi le scarpe.
"Allora, com'è andata?"
Mi butto sul letto, osservando il soffitto.
"Bene. Ovviamente ha acconsentito. Non si sarebbe fatto perdere di certo un occasione del genere per non avermi tra i piedi."
Lui si avvicina, sedendosi a sua volta sul materasso.
"Quello lo sapevo già. Intendo, tu come stai?"
Trattengo il fiato, prima di spostare lo sguardo sulla sua figura. È così bello...
"Esattamente come mi aspettavo. Si può provare il nulla assoluto nei confronti del proprio padre?"
"Dipende dalle situazioni."
Si toglie il giubbotto, buttandolo da qualche parte della stanza, per poi sdraiarsi vicino a me.
"Come mai sei qui, Dan?"
"L'ho voluto io." Mormoro.
Lui mi fissa con un sopracciglio alzato.
"In un posto di merda del genere?"
"Mh. Stavamo litigando, io gli rimproveravo il fatto di essere sempre via, e lui disse "Se non ti piace stare qui, allora va' in un collegio, almeno avrai più compagnia." E sul momento gli ho detto che mi andava bene, che mi ci poteva portare pure. E la settimana dopo mi ha fatto trovare sul tavolo della cucina i documenti già preparati dell'iscrizione."
Chris sospirò una risata.
"Che stronzo."
"Già."
"Tu perché sei qui?" Oso chiedere, osservandolo mentre contrae la mascella, diventando completamente rigido.
"Non mi va di parlarne."
Annuisco. Se non vuole, vuol dire che gli fa ancora male. Anche se vorrei che si confidasse con me, non c'è nulla che possa fare.
Sospira per l'ennesima volta, mettendosi poi a sedere, afferrando il giubbotto.
"Esco."
"Dove vai?"
"Vado con i ragazzi a prendere un po' d'erba. Ci organizziamo anche per capodanno. Starò via un bel po'. Puoi coprirmi, in caso?"
"Certo." Lo rassicuro, annuendo.
Si sporge verso di me, lasciandomi un bacio a fior di labbra, poi va via.
Dovrei davvero dirgli ciò che ho visto?Sono circa le undici di sera, quando Chris rientra. Sospiro, sollevato. Si era perso, per caso?
"Daniel?" Mi chiama.
"Sono qui." Gli dico, affacciandomi con la testa attraverso la finestra.
Mi sistemo meglio la coperta addosso, mentre una leggera brezza mi scompiglia i capelli.
"C'è un po' di spazio anche per me?" Chiede, scavalcando la finestra e mettendosi alle mie spalle.
"Che ci fai qui fuori?"
Umetto il labbro inferiore, passandogli la coperta in modo che avvolga entrambi. Sento le sue mani cingermi la vita, per cui appoggio le mie sulle sue, più fredde.
"Pensavo."
Appoggia il suo mento sulla mia spalla.
"Posso dirti una cosa, senza che tu ti arrabbi?"
Aggrotto le sopracciglia, annuendo.
"Quando oggi hai detto che non provi nulla per tuo padre... non credo sia vero. Sei giù di morale da quando lo hai visto, il che vuol dire che non ti è proprio indifferente..."
Sospiro. Ha ragione.
"È pur sempre mio padre. È normale che gli voglia bene. No?"
"Certo."
"Però... C'è questa lontananza tra noi. È assurda. Sarà perché siamo entrambi testardi, o altre cazzate del genere, ma non riusciamo ad andare d'accordo."
"Oggi mi hai chiesto perché sono qui. Ti interessa ancora?"
"Solo se te la senti."
Mi lascia un bacio sulla guancia, prima di iniziare a parlare.
"Mi hanno lasciato davanti al cancello di questo posto quando avevo ancora due anni. Mio padre - beh, non è proprio mio padre - si premurò che venissi affidato ad una famiglia per bene, davvero interessata al benessere e all'amore di un orfano. Mi diedero ad una famiglia che non poteva avere figli, e andava tutto bene. A dieci anni entrambi morirono in un incidente stradale, per cui venni rimandato qui. Colui che oggi io chiamo papà voleva portarmi a casa con sé, ma la moglie non voleva assolutamente volere dei figli, per cui lui decise di adottarmi e allo stesso tempo farmi vivere qui. Detta in modo breve: sono un gatto nero."
"Perché dici di essere un gatto nero?"
"Perché sono un porta sfortuna ambulante." Dice lui, ridendo.
"Ma dai, non è vero."
"Sua moglie morì qualche anno dopo." Afferma, serio.
Lo fisso, non capendo se mi stia dicendo la verità o meno.
"Dici davvero?"
"Già."
"Allora io sono un corno rosso ambulante."
Mi guarda con un sopracciglio alzato, divertito.
"E perché?"
"Perché anche io ti sto vicino, eppure mi hai portato tutt'altro che iella."
Inizia a ridere di cuore, gli occhi socchiusi e le guance arrossate. Sorrido, a vederlo così.
Poi va indietro con la schiena, trascinandomi con lui. Mi volto nell'abbraccio, fino ad essere a pochi centimetri dal suo viso.
"Sarà che siamo entrambi sfigati." Dice, continuando a sorridere.
"Allora sono felice di essere uno sfigato." Commento, prima di lasciarmi andare sulle sue labbra.
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221B.
Teen FictionCamera 221B. Daniel viene rinchiuso in un orfanotrofio. È solo, lo è sempre stato, ma non ha bisogno di nessuno al suo fianco. O almeno, così crede. Tanti sotterfugi si nascondono dentro le camere del dormitorio, ed anche una gerarchia che tutti, st...