Capitolo 2.

16 1 0
                                    

15 anni dopo

-Hei Josh
Una voce dolce e melodiosa rieccheggia nella piccola stanza. Con fatica apro gli occhi, cercando di abituarmi alla luce quasi accecante che proviene dalle finestre. Bianco. Il bianco mi investe come un tir. Per alcuni è un colore che trasmette serenità, ma io non sono dello stesso parere. Sono stato talmente tante volte rinchiuso in queste camere d'ospedale, che quasi mi spaventano. Anche se in fin dei conti, mi hanno sempre riportato alla realtà. La prima volta in cui sono stato qui è stato a dodici anni, ancora non sospettavo che questa sarebbe ben presto diventata la mia seconda casa. L'unica cosa che mi tiene attaccato a terra è l'azzurro. Sono i grandi occhioni celesti della donna che mi ha messo al mondo. Sento la sua mano calda lasciarmi una leggera carezza sulla guancia, e questo mi dà la forza per provare a sollevarmi leggermente.
-Che è successo?
La confusione è l'unica cosa che rimbomba nella mia mente, affollata da troppi pensieri.
-Hai avuto una ricaduta, tesoro
Panico. Queste parole mi riportano alla realtà. Ricordo la febbre alta, il sudore imperlato sulla fronte, il freddo glaciale seguito da un'afa focosa.
-Per quanto sono stato incosciente?
-Circa tre giorni.
Ora capisco il motivo delle profonde occhiaie che solcano il viso di mia madre, dev'essere stata seduta su quella sedia per tutto il tempo.
-Hai bisogno di un po' d'acqua?
-Sì, grazie mamma.
In un gesto repentino, afferra una bottiglia, ci infila una cannuccia colorata e la porta di fronte al mio viso. La mia gola secca comincia ad implorare pietà. In un movimento appena accennato retrocedo con la testa e lei allontana la bottiglia, appoggiandola sul tavolino lì accanto.
-Mamma, vai a riposare, sto bene adesso.
All'inizio esita, ma poi, notando la mia faccia contrariata, mi lascia un leggero bacio sulla guancia e cammina lentamente verso la porta.
-Se hai bisogno di qualsiasi cosa, io sono nella stanza accanto, ti voglio bene.
-Ciao, mamma.
Non potrei desiderare madre migliore, mi è sempre stata accanto, momenti peggiori inclusi. La verità è che quella frase, "ti voglio bene" non è più uscita dalla mia bocca dopo la mia diagnosi. Stiamo parlando di circa dieci anni fa. Dodici anni. A quell'età i bambini dovrebbero giocare e divertirsi all'aria aperta, mentre io me ne stavo rinchiuso in una stanza d'ospedale. Da quel giorno per me il tempo si è praticamente fermato. Tutto passava, proseguiva il suo cammino, tutto tranne me. Era come osservare il cambiamento del mondo dall'interno di una cupola di vetro. Immobili, inutili. Farei di tutto per far scorrere questo tempo infinito più velocemente possibile. Ho solo bisogno che questo inferno finisca. Il tempo è un bene per chi può seguirlo e starci dietro. Ma per quelli che aspettano soltanto l'inevitabile arrivo della fine, è un inferno. Le lancette dell'orologio sembrano non voler scorrere, soltanto per prendersi gioco di me. In questo mondo frenetico, io sono soltanto un errore, un incidente dell'umanità. Osservo con odio i fili che mi spuntano dalle braccia e scuoto la testa disgustato. Io vivo attraverso una macchina, vivo circondato dalle iniezioni e dalle medicine.
Io non vivo.
Lancio un'occhiata attraverso la porta che mia madre ha lasciato spalancata, probabilmente per controllarmi, e la trovo accasciata su una sedia, con gli occhi chiusi e un bicchiere di caffè in mano. Quello su cui rifletto da mesi è che la mia diagnosi non solo mi ha rovinato la vita, ma ha rovinato anche quella di mia madre. Sta facendo i salti mortali per pagare le visite e tutte le operazioni, e sono stanco di essere soltanto un peso.
Ero ancora un bambino quando, dopo una serie di visite mediche, mi diagnosticarono una sclerosi a placche, conosciuta anche come sclerosi multipla. All'inizio non mi preoccupai più di tanto, pensavo che fosse una cosa da niente, resa più terrificante dal nome e dalla parlantina del medico. Mi sbagliavo. Con il tempo la malattia è cresciuta, fino a portarmi alla perdita degli arti inferiori. Ora il termine che usano i dottori è paraplegia. Nessuno ha mai capito da dove questa malattia abbia preso vita, alcuni suppongono che si sia trasmessa per via genetica, altri per un infezione.
Nonostante tutto ciò che i medici e mia madre cerchino di fare, è tutto inutile. Non si guarisce da una malattia del genere e io lo so molto bene.
Un bambino che amava correre, ecco cos'ero. Un bambino che partecipava a delle gare nazionali. Un bambino con dei sogni, con delle speranze. La mia vita mi è scivolata dalle mani come sabbia al vento.
Guardo mia madre, occhi chiusi, testa pesante, cuore distrutto.
Osservo il macchinario che al momento mi sta tenendo in vita con un sorriso amaro.
Chiudo gli occhi.
-Bit Bit
Con fatica faccio scorrere la mano destra lungo il mio corpo, fino a raggiungere il mio polso.
Apro gli occhi, guardo mia madre.
Afferro il filo bianco che riposa all'interno del mio braccio.
Chiudo gli occhi.
-Bit Bit
Mi concentro su mio padre, sull'ultima volta che lo vidi salire su quel furgone.
-Bit Bit
Vedo mia sorella che mi abbraccia dopo la vittoria in Ohio.
-Bit Bit Bit Bit
Vedo le mie gambe che corrono leggere su un prato primaverile.
-Bit Bit Bit Bit Bit
Vedo il mio polso, libero da tutto.
-Bit Bit Bit Bit Bit Bit Bit Bit Bit
Addio mamma, non ti preoccupare per me, ti saluterò nonna.
-...

This Is Not The End.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora