3 Quel bar insolito

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Quando vivi raccolta nel tuo dolore, i giorni scorrono senza che tu te ne accorga e ti trovi spettatrice della tua stessa vita, che non hai il coraggio di afferrare.

Erano già trascorse due settimane e il cuore non sembrava riprendersi dallo scontro col ragazzo con occhi magnetici, sebbene lo negassi pure a me stessa.

Intanto dentro di me avevo continuato a rivivere il momento in cui avevo perso il mio amore.

Stavo girando in auto senza meta con l'intento di sfuggire ai pensieri e ogni tanto stringevo la mano della mia Daria.
In un attimo che sembrò eterno il destino era pronto a infierire su di me. Guido era di fronte a me. Le sue mani stringevano quelle di un'altra donna e le sue labbra si poggiavano continuamente sulle sue. Un contatto vero il loro, un desiderarsi continuo. Mi bloccai, come catapultata in un brutto sogno, ma la realtà graffiava l'anima con una tale intensità da imprimere tutto il dolore e la delusione come un marchio sepolto sotto le membra.

Mi sentivo malinconica e, senza pensarci due volte, corsi dalla mia isola felice, Daria.
«Daria sono sotto casa tua. Scendi presto perché non trovo parcheggio.»

Il parcheggio era un'altra cosa che non mi riusciva per nulla, in particolar modo quello a S. Per impararlo avrei dovuto provare e riprovare, ma avevo sempre paura di girare troppo a destra o a sinistra, di prendere il marciapiede o, ancor peggio, la macchina dietro o quella avanti. Prima di parcheggiare mi ponevo pure il problema di posizionarla già pronta per uscire.

Flavio diceva sempre che avevo ricevuto la patente come premio di una raccolta punti, per cui non ho nulla da aggiungere.

Mentre l'ansia mi assaliva per aver parcheggiato male l'auto, il rumore sordo di una mano che impattava contro il vetro del finestrino mi fece sobbalzare. Mi ridestai e si palesarono due occhi nocciola che mi fissavano infastiditi, come a cercare di leggere i miei pensieri.
«Scusa, ti apro subito.»
«Ciao tesoro, allora che facciamo di bello?» mi chiese con il suo solito sorriso stampato sul volto.
«Non dovremmo studiare? Ho parecchio da recuperare.»
Con lo sguardo preoccupato cercai di rafforzare la mia idea.
«Rilassati tesoro, hai tutto il tempo di questo mondo. Stai troppo giù oggi. Quello che ti occorre è andare a quel bar nuovo vicino alla stazione. Mi pare si chiami Relax, che nome insolito per un bar.»
Parlava guardandosi nello specchietto dell'auto e sistemandosi il trucco.
La mia mente si ribellava, ma il corpo eseguiva gli ordini senza obiettare, d'altronde sarebbe stato inutile, conoscendo la sua testardaggine.

Le altre macchine mi sfrecciavano accanto mentre ero persa nei miei pensieri. Una meta poco distante la nostra e le parole di Daria sempre più lontane, la mia mente come separata dal corpo, a cercare un attimo di pace.

In breve mi ritrovai in questo posto tanto decantato, dove l'inventiva aveva preso il sopravvento. Tre sale si susseguivano: una con altalene e dondoli, in cui l'azzurro era il colore predominante, dove godersi un inusuale caffè, una semplice con sprazzi di giallo e arancio ovunque, con tavoli e sedie classiche e, dulcis in fundo, una splendida sala lettura, dove potevi sentirti a casa tua, sprofondando in morbidissimi divani colorati, a leggere un libro, sorseggiando un bel tè. L'atmosfera orientale, con il rosso e il dorato che si mescolavano magnificamente, padroneggiava e aiutava a rilassarsi. Ovviamente fu impossibile resistere alla tentazione della terza sala, che sembrò riscaldarmi il cuore e cullare la mia anima. Ordinai una bella tisana al lampone e mirtillo rosso e Daria se ne concesse una al gelsomino e uva bianca.

«Questo si può definire un pomeriggio rilassante» esclamò Daria, stravaccandosi su alcuni cuscini colorati che adornavano un comodissimo divano.
«Già adoro questo posto. Poi, una così vasta selezione di tisane non l'avevo mai vista» ammirai continuando a sfogliare il menù, pentendomi di non aver fatto una scelta diversa. La mia indecisione incominciava a diventare patologica.

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