10 anni dopo...

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Jace si sedette a capotavola, nel suo posto d'onore riservato, unico membro della famiglia ad averne uno (ma questa è un’altra lunga storia).
Erano tutti riuniti all'Istituto per festeggiare Capodanno insieme, tradizione che Clary e Simon – cresciuti nel mondo mondano – avevano insistito per continuare a festeggiare in grande stile.
Era anche una di quelle occasioni che ai bambini piaceva chiamare “riunioni da Zio Jace” e quest’ultimo, anche se non lo dava mai a vedere, era davvero onorato di essere lo zio preferito, divertente e simpatico. I suoi nipoti stravedevano per lui: d'altronde, come potevano farne a meno? Tutti lo adoravano.
Si guardò intorno: erano tutti seduti al grande tavolo dell'Istituto, dove ora abitavano lui e Clary, insieme ai loro figli. Anni prima Clary aveva detto di non volere figli prima di 10 anni, forse per paura, ma Jace era riuscito a convincerla.
Osservò con orgoglio e amore la sua piccola Lizzie, che ormai tanto piccola non era più: aveva 7 anni e Jace ricordava ancora tutta la fatica e le discussioni con la moglie per scegliere il nome.
Alla fine avevano deciso: si sarebbe chiamata Emma Elizabeth Herondale – suona bene, no? –, anche se nessuno usava mai il nome completo, o anche solo il primo nome.
Clary, negli anni precedenti e durante la gravidanza stessa, si era avvicinata molto a Emma Carstairs, ora Emma Blackthorn, e aveva deciso di chiamare la bimba come lei. Di fatto, però, la chiamavano tutti Lizzie per non fare confusione, anche se i suoi genitori si divertivano a chiamarla con il nome completo quando li faceva arrabbiare.
Jace sorrise, perso nei suoi ricordi e Clary, seduta accanto a lui, se ne accorse.
Alzò un sopracciglio con fare interrogativo e il marito scosse la testa, stringendole leggermente una mano posata sul suo ventre.
Era incinta al settimo e Jace pensò sorridendo che avrebbero avuto un'altra femmina, anche se non lo avevano ancora detto a nessuno. Non volevano avere altre pressioni dalla loro famiglia impicciona: avrebbero continuamente chiesto loro il nome e i futuri genitori non lo avevano ancora deciso.
Ad un certo punto Jace sentì qualcuno afferrargli il piede da sotto il tavolo: si abbassò e trovò Will, il suo secondo figlio.
Lo sollevò ridendo e se lo mise in braccio, mentre il bambino gli sorrideva e gli faceva la linguaccia.
Aveva solo tre anni, ma era già una peste, con quei suoi capelli biondo dorati, ereditati dal padre, e gli occhi verdi con qualche sfumatura d'oro che scrutavano il mondo curiosi.
Non si sarebbe mai dimenticato la faccia di Alec quando gli avevano comunicato il nome e, in realtà, Jace credeva fosse stata una scelta che il parabatai non gli avrebbe mai perdonato, nonostante ormai ci avesse fatto l’abitudine.
In effetti, forse non era stata proprio una grande idea chiamare il figlio come l’uomo di cui il suo parabatai era geloso ai tempi dei primi mesi di relazione con Magnus, ma non era certo colpa sua se gli Shadowhunters erano così tradizionalisti. Dare ai propri figli un nome appartenente alla famiglia, seppur di generazioni passate, era infatti usanza comune e nessuno gli avrebbe tolto la soddisfazione di veder mutare l’espressione di Alec ogni volta che veniva chiamato il bambino.
Con grande sorpresa di Jace, di nuovo assorto nelle sue memorie, improvvisamente qualcuno gli prese l'altro piede: si abbassò e vide Cassie, la figlia di Simon e Izzy.
Doveva aspettarselo! Lei e suo figlio erano inseparabili fin dalla culla, nonostante lei avesse un anno in più.
“Hanno un futuro come parabatai” pensò ridendo lo Shadowhunter, ma sotto sotto era un pensiero di tutti.
La bambina era la fotocopia di suo padre, con i capelli mossi castani e gli occhi dello stesso colore: Jace aveva sempre pensato che i lineamenti di Simon fossero molto femminili e ora, con sua grande soddisfazione, ne aveva avuta la conferma e non perdeva occasione per ricordaglielo.
Sua nipote gli sorrise da sotto il tavolo, con il suo bellissimo sorriso sdentato, e lui prese in braccio pure lei.
«Papà, siamo due demoni! Ti abbiamo spaventato?» esclamò il bimbo.
Jace rise alle parole di Will, felice che suo figlio avesse ereditato la passione per la caccia ai demoni.
«Siete spaventosissimi! Non fatevi vedere da zia Izzy, però, perché potrebbe confondersi e uccidervi!» disse, fingendosi serio.
«Parlavi di me?». Isabelle, sentendosi chiamata, comparve alle sue spalle e prese in braccio la figlia.
«Lascia in pace lo zio, dai, ora dobbiamo andare a mangiare» disse, portando via la bambina e facendola sedere al suo posto, di fianco a suo fratello.
Da quando aveva perso il suo fratellino anni prima, Izzy aveva ripetuto continuamente a se stessa che se mai avesse avuto un figlio lo avrebbe chiamato Max, in suo onore.
Quando George era nato, 8 anni prima, era così che avrebbe voluto chiamarlo, nonostante il piccolo stregone adottato da Alec e Magnus avesse lo stesso nome, ma Simon l'aveva gentilmente convinta a non farlo: a differenza di quanto pensasse Valentine, chiamare due persone nella stessa famiglia con lo stesso nome poteva causare fraintendimenti.
La scelta successiva era stata ovviamente George, come tutti si aspettavano: nessuno aveva dimenticato quel mondano così coraggioso tanto amico di Simon.
Maryse entrò improvvisamente nella stanza, portando con sé un enorme vassoio di cibo: in queste occasioni le piaceva tornare all'Istituto e cucinare per tutti, spesso aiutata da Clary. Anche Isabelle si offriva sempre di aiutare ma, dopo che un anno aveva letteralmente mandato in fumo la loro cena facendola bruciare, ogni volta che entrava in cucina veniva non-molto-gentilmente cacciata via.
La donna era quasi arrivata al tavolo con la prima portata quando rischiò di cadere malamente a terra.
Darya, la figlia di Magnus e Alec stava correndo in giro per l’Istituto ed era passata molto vicina a nonna Maryse, sbilanciandola.
I due ragazzi l'avevano adottata circa 8 anni prima, proprio quando era nato George, ma la bimba all'epoca aveva già 2 anni.
Si era scoperta essere una lontanissima nipote di Magnus: lo stregone era venuto a sapere che entrambi i genitori della piccola erano morti, tramite qualche contatto che nonostante tutto aveva tenuto con le sue origini umane, e non se l'era sentito di lasciarla a crescere in un orfanotrofio in Indonesia. Alec si era trovato d'accordo con lui, come sempre, e nel giro di qualche mese Darya era entrata a far parte della famiglia.
Il nome completo della piccola era Darya-ye Noor, un nome di origine persiana che significa “mare di luce”.
Magnus e Alec avevano deciso di tenerlo, anche perché allo stesso modo è chiamato un grande diamante rosa presente a Teheran e Magnus, affascinato com’è dal lusso, dalle cose antiche e luccicanti, rifletteva in quella creatura una parte di lui che per anni aveva tentato di dimenticare. In più amava riempire la bambina di glitter rosa, proprio per rendere onore al suo nome.
Jace osservò che anche in quel momento Darya era piena di brillantini ed era impossibile non vederla, con i suoi liscissimi capelli scuri raccolti in due trecce e la sua pelle dello stesso colore di quella di Magnus.
Osservò la scena per qualche minuto e infine decise di posare il figlio – ancora in braccio a lui – e alzarsi per aiutare Maryse, palesemente in difficoltà, con la nipote ai suoi piedi e l'enorme vassoio in mano.
A salvare la situazione fu però Max: chiamò infatti la sorellina a sedersi accanto a lui, attirandola con un vortice di glitter che gli usciva dalle dita blu, facendola ridere.
Crescendo, Max era diventato uno stregone degno di suo padre e, anche alla sua giovane età di 12 anni, era in grado di compiere magie impressionanti, che solitamente servivano semplicemente a far divertire la sorellina o i cugini.
Spesso Jace e Clary, quando volevano qualche momento di intimità, portavano i bambini a casa di Magnus e Alec, dove il piccolo Max riusciva a tenerli buoni con la sua magia luccicante: impresa non da poco, considerando che tutti i suoi cugini erano Shadowhunters scalmanati.
Al contrario, suo fratello Rafe era diventato un ragazzo molto timido, anche se bravissimo nel combattimento e con l’arco, come il padre.
Jace guardò con affetto anche lui: spesso loro due si trovavano da soli, quando il ragazzo andava da lui per chiedergli consigli per migliorarsi nell’addestramento, ma soprattutto – cosa che lo metteva evidentemente in imbarazzo e che invece faceva divertire lo zio – consigli sulle ragazze.
Ovviamente lui era sempre felice di fornirglieli, soprattutto questi ultimi, nonostante fosse continuamente messo in difficoltà da Magnus e Alec, che solitamente interrompevano le loro “sedute” non approvando i metodi che lo zio suggeriva.
E in quel momento un pensiero si affacciò alla mente di Jace, che portò istintivamente le sue labbra a distendersi in un ghigno: era tempo di vendicarsi.
Ma la vendetta, si sa, è un piatto da servire freddo, quindi decise semplicemente di aspettare e di cogliere il momento giusto, che sicuramente sarebbe presto arrivato, conoscendo la sua famiglia.
Doveva solo tenere occhi e orecchie aperte, in modo da potersi inserire con nonchalance nella conversazione: non voleva certo far arrabbiare Alec come al matrimonio di Simon e Izzy.
Il tavolo dei bambini, dal lato opposto a dove era seduto lui, era troppo lontano per cogliere le conversazioni, e comunque Jace dubitava di poter trovare degli spunti accettabili da loro.
Fece allora scorrere lo sguardo sulla sua famiglia, fino ad incontrare quello di Clary.
«Ehi, stai bene? Stasera sei strano» gli chiese sua moglie.
«Sto bene, stavo solo… pensando» rispose lui, cercando di fare la sua solita faccia da innocente che funzionava con tutti. Si era dimenticato del fatto che con quella espressione non era mai riuscito ad ingannare lei, però.
«Non me la racconti giusta… Cosa stai architettando?» Clary lo guardò sospettosa, ma Jace si limitò a fare spallucce e lei, dopo essere rimasta a fissarlo per un altro lungo attimo, riprese a parlare con Simon, seduto al suo fianco.
«Zio! Zio Jace!» sussurrò una voce ad un certo punto, e l’interessato si guardò intorno per capire chi lo stesse chiamando.
Rafael si era furtivamente avvicinato dietro di lui, per parlargli.
«Ehi, Rafe!». Si girò verso il nipote, dando le spalle alla moglie, sperando non ascoltasse la conversazione.
«Ti ricordi di quella ragazza di cui ti avevo parlato? I tuoi consigli hanno funzionato! Però papà Alec non mi permette più di vederla perché dice che sono troppo giovane per avere una fidanzata» spiegò il ragazzo, in fretta.
«Ora però non girarti, ci sta guardando male» aggiunse poi, notando lo sguardo assassino che lo zio stava per rivolgere al parabatai.
“Ecco qui l’occasione che stavo aspettando” pensò Jace alla fine, dopo mezzo minuto di indecisione. “Grazie, Rafe”.
«Capisco. Tu torna a mangiare tranquillo, qui ci penso io» gli promise, liquidandolo con un gesto della mano.
Subito dopo si girò e si schiarì la voce.
«ALEC!» gridò.
Si voltarono tutti a fissarlo, preoccupati che fosse successo qualcosa di grave, tranne i bambini che continuarono a giocare come niente fosse.
«Ti sembra questo il modo di educare tuo figlio?» esordì serafico, una volta ottenuta l’attenzione di tutti, incrociando le braccia al petto.
Il diretto interessato arrossì leggermente. «Che ho fatto di male, scusa?».
«Non è mai troppo presto per avere una fidanzata» ghignò il biondo. «Questa cosa che impedisci alla gente di darci dentro sta diventando un’ossessione. Non è che sei sessuofobico?».
Alec arrossì fino a diventare dello stesso colore dei capelli di Clary, proprio mentre Magnus esclamava: «Fidati, non lo è!».
Simon cercò di trattenere una risata, confermando però quello che aveva detto Magnus, probabilmente ripensando alla scena che si era trovato davanti la mattina in cui aveva trovato Max all’Accademia.
«Voi non… io… insomma, sto solo cercando di…» cominciò a dire Alec, ma il suo parabatai lo interruppe subito.
«Di fare quello che hai cercato di fare con Simon e Isabelle? Vuoi che ti ricordi com’è andata a finire?». Jace si scambiò un’occhiata complice con Simon, ed entrambi scoppiarono a ridere.
«JACE HERONDALE» gridò Alec, con la voce particolarmente acuta.
I due compari, ormai complici, scoppiarono a ridere ancora di più sentendo di quante ottave era salito il tono del ragazzo.
«Avevi promesso che non avresti più tirato in ballo questa storia!» continuò quest’ultimo, visibilmente sconvolto.
«No, invece. Tu mi avevi chiesto di non farlo, ma non una promessa è uscita dalla mia bocca» precisò Jace, mentre Simon annuiva.
«Per quanto mi costi ammetterlo, ha ragione. Quella volta te ne sei andato prima ancora di sentire la nostra risposta» gli diede manforte.
«Tu sei… voi… non ci posso… aaaah vi odio!» farfugliò Alec.
Ma nessuno lo stava davvero ascoltando, troppo presi com’erano a sbeffeggiarlo.
«Ah, quel divano era proprio comodo, vero Izzy?» cominciò Simon, guardando però Jace, che non attese una risposta prima di rivolgersi alla sua metà.
«Oh Clary, ma te lo ricordi? Era proprio della misura perfetta per noi!» esclamò quindi il biondo, imitando il suo amico.
Strano come la vita può sorprendere. Nessuno dei due avrebbe mai pensato che sarebbero finiti così.
«Oh per l’Angelo, Jace! Non abbiamo fatto nulla di che su quel divano! Piantala con sta storia e lascia stare Alec» intervenne Clary, voltandosi poi verso il suo migliore amico scoccandogli un’occhiataccia «E anche tu, Simon, smettila di dargli corda!» lo riprese, tirando un pugno sulle braccia a entrambi, tanto per ribadire il concetto, ma allo stesso tempo arrossendo.
Jace si portò una mano al petto, fingendosi offeso. «Non abbiamo fatto nulla di che?? Stai scherzando? Non ti ricordi, è stata la prima volta che abbiamo provato a…».
«Solo perché sono consapevole di essere invecchiata e che voi siate tutti adulti e con dei figli, non significa che io voglia sapere i dettagli delle vostre vite. E soprattutto non ho nessunaintenzione di sapere che diamine avete fatto su quel divano!» esclamò perentoria Maryse, con il suo solito tono autoritario e glaciale che negli anni non aveva mai abbandonato.
D’altronde con una famiglia così…
Jace e Simon dovettero ammettere di essersi completamente scordati della sua presenza e del fatto che non conoscesse nulla al riguardo: adesso, invece, a causa loro un’altra persona sapeva cosa avevano fatto ad Alec.
Erano consapevoli di doversi quantomeno dispiacere della cosa, ma, al contrario, i due si lanciarono uno sguardo complice e scoppiarono a ridere di nuovo sotto gli occhi di un’esasperata Clary.
Questa volta le loro risate ebbero breve durata, però.
«Io voglio sapere cosa avete fatto tu e mamma sul divano di zio Alec» disse all’improvviso una vocina, proveniente da dietro di loro.
“Ora sì che sono nei guai” si ritrovò a pensare Jace, nel silenzio carico di tensione che seguì l’intervento.
Si girò e ritrovò Lizzie, che lo stava guardando con i suoi grandi occhioni innocenti.
“Così piccola eppure così abile a comparire all’improvviso e ad infilarsi nei discorsi più disparati. Se non fosse un pessimo momento, potrei anche essere orgoglioso di lei” pensò.
Sua moglie si sporse verso di lui e gli sussurrò un impercettibile “Sei morto” nell’orecchio, mentre Jace cercava inutilmente di trovare qualcosa da dire.
«Beh, ecco… Noi stavamo… ehm… giocando» disse, senza incrociare lo sguardo di sua figlia.
Quella bambina era talmente sveglia che a volte gli metteva paura.
«Giocando?» ripetè la piccola, sospettosa, senza togliere gli occhi dal papà.
«Sì ecco. Noi stavamo giocando a… a…» continuò allora, visibilmente in panico ora.
«A carte!» intervenne Clary, dicendo d’istinto la prima cosa che le veniva in mente.
Jace scosse la testa: probabilmente quella risposta era stata frutto del suo inconscio cresciuto in un mondo mondano che ogni tanto riaffiorava, perché gli Shadowhunters non giocavano a carte.
E, soprattutto, lui non giocava a carte. Non ne era mai stato capace.
«Gli Shadowhunters non giocano a carte» rise Lizzie, praticamente leggendogli nel pensiero. «Gli Shadowhunters combattono i demoni!». Lo disse con così tanta determinazione che fece sorridere il genitore, mentre si adagiava la figlia sulle ginocchia, fiero di lei.
«Beh, tuo padre non sa giocare a carte, per cui mamma glielo stava probabilmente insegnando» intervenne Alec, sogghignando soddisfatto.
«Papà non sa giocare a carte?» chiese la bambina, incredula, voltandosi a fissarlo.
Jace si sentì sprofondare: Alec aveva giurato che non lo avrebbe mai raccontato a nessuno.
«CHE COSA?» esclamò Simon forse un po’ troppo sconvolto dalla notizia, seguito a ruota da Magnus.
«Jace Herondale non sa fare qualcosa?» chiese allora Clary, stupita. «Questa me la segno!» disse poi, divertita. Isabelle scoppiò a ridere e diede il cinque alla sua amica.
Jace pensò alla sfortuna che aveva avuto: c’era una sola cosa che non sapeva fare e il suo parabatai era anche riuscito a scoprirla, per poi diffondere la notizia.
Li maledì tutti quanti in silenzio.
Lizzie sembrò riprendersi dallo shock della rivelazione alla fine, perché saltò giù dalle ginocchia del padre e si mise a correre verso gli altri bambini, per informarli della cosa, probabilmente.
E infatti poco dopo li sentirono tutti sussultare, prima che qualcuno – la solita Lizzie – urlasse da una parte all’altra della sala.
«Non ti preoccupare, papà! Ci pensiamo noi ad insegnarti!» e detto questo si mise subito a correre per l’Istituto, rovistando nei cassetti alla ricerca del mazzo da gioco, finendo solamente con il rovesciare sul pavimento tutte le vecchie carte dei tarocchi dipinte da Jocelyn anni prima, che Clary aveva deciso di conservare.
«EMMA ELISABETH HERONDALE! SMETTILA SUBITO!» la sgridò allora Jace.
Sua figlia, però, lo ignorò bellamente e riprese a correre ovunque, per finire quello che aveva iniziato. Poco dopo anche il piccolo George si alzò dal suo posto, andando in aiuto della cugina.
Jace scosse la testa e incrociò lo sguardo del parabatai, ma, prima che potesse dire qualcosa, un’altra vocina lo interruppe.
«Zio Jace, ma quindi perché papà Alec non vuole che tu e zia Clary giochiate a carte sul divano?» chiese Darya, comparsa magicamente dietro di lui.
“Ma perché i bambini sono così silenziosi?” si chiese Jace, esasperato. “Compaiono ovunque e sentono quello che non dovrebbero sentire”.
«Perché… beh, perché le carte sono andate tutte in giro sul divano e si sono infilate tra i cuscini, quindi non si riuscivamo più a trovarle» cercò di dire Jace, pur sapendo essere una scusa debolissima.
«Ma il divano era grande?». Darya lo guardò con i suoi occhi scurissimi e curiosi.
«Eh sì, era molto grande» confermò allora, non sapendo cos’altro dirle.
«Ho capito perché papà Magnus vuole i divani piccoli! Io glielo chiedo sempre di prendere un divano enorme così possiamo starci seduti tutti insieme, ma lui dice che preferisce controllare chi si mette sul suo divano e quindi lo prende piccolo piccolo» disse la bambina, con voce triste.
“Ah, chi lo avrebbe detto che Magnus sarebbe stato così furbo!” pensò Jace, decisamente divertito.
«Non preoccuparti, Darya. Te lo prende lo zio Jace un divano nuovo enorme, okay? Probabilmente prima o poi potrebbe tornare utile anche a tuo fratello, magari è un vizio di famiglia» ghignò lui, guardando Alec che per poco non cadde dalla sedia.
A quel punto però si intromise Magnus.
«Quel divano sparirà velocemente da casa mia. Se oltre a mio figlio, venisse qualche strana idea anche a qualcun altro… non voglio pensare a cosa farebbero quei disgraziati di oggi alla mia principessa.»
“Il solito esagerato” sbuffò Jace prima di voltarsi sconsolato verso la porta, che aveva sentito aprirsi.
«Nonno Luke! Nonna Jocelyn!» esclamò Lizzie, correndo incontro ai nuovi arrivati. «Ma lo sapete che papà non sa giocare a carte?»
A quel punto tutti si misero a ridere, Jocelyn compresa, e si chinò per dire qualcosa alla nipote che Jace non riuscì a cogliere perché qualcuno lo afferrò per la spalla.
«Dovete smetterla di arrivarmi alle spalle!» esclamò frustrato.
Si scoprì essere Isabelle, questa volta, e la sua espressione non prometteva niente di buono.
«Alloora…» iniziò. «“Giocare a carte”, eh? È così che si dice, adesso? Devo essere rimasta un po’ indietro».
Entrambi i fratelli – il maggiore e quello acquisito – la guardarono scandalizzati per mezzo secondo, ma nessuno le disse più niente: erano abituati alle sue allusioni, dopotutto.
Jace decise di ignorarla, distogliendo lo sguardo da lei - se le avesse dato corda non voleva pensare dove sarebbe andato a parare il discorso –, stufo di farsi prendere in giro per questa storia.
Doveva essere Alec quello a disagio, non lui.
Decise, allora, di concentrare la sua attenzione sul bicchiere di vino che si era appena versato.
Ad un certo punto, la limpidissima vocina della figlia, Lizzie, risuonò di nuovo per tutto l’edificio.
«Ehi George! Vieni a giocare a carte con me sul divano?» disse e, per poco, Jace Herondale non si strozzò.

"In vino veritas" (Sizzy on Alec's sofa)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora