Erica - Solitudine

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Apatia: incapacità prolungata o abituale di partecipazione o di interesse, sul piano affettivo o anche intellettivo.

Cassandra conosceva bene il significato di quella parola e non perché fosse un'insegnante di greco, ma perché quelle poche lettere allineate in quel preciso ordine erano la perfetta descrizione della sua attuale condizione.

Tutto in lei gridava "apatico": i movimenti meccanici, lo sguardo spento e fisso, la trascuratezza che sempre l'accompagnava.

Le giornate scorrevano seguendo una noiosa ed estenuante routine. A colazione, con precisione maniacale, stendeva un velo di marmellata su tre fette biscottate; contava i passi - ottantasette, eseguiti con falcate regolari - che separavano la fermata dell'autobus dal portone d'ingresso del liceo; ripeteva concetti imparati anni prima ai volti addormentati degli studenti - e dentro desiderava morire.

Suo figlio non sarebbe mai stato uno di quei volti stanchi e svogliati, non avrebbe mai imparato il greco, non avrebbe mai assaggiato il suo strudel di mele e non avrebbe mai visto quanto il cielo era luminoso anche di notte. Lei non avrebbe mai conosciuto suo figlio. Erano passate solo cinque settimane da quando aveva avuto il suo terzo aborto spontaneo.

Doveva esserci un errore, perché era già stata visitata, aveva fatto le cure e suo marito non risultava essere sterile.

Adesso dei suoi sogni, della sua famiglia e del suo amore non restava altro che il vuoto che avevano scavato all'interno della sua gabbia toracica. Il suo cuore era stato consumato, come un vecchio straccio consunto, e niente avrebbe potuto farlo rinascere.

Il tempo era scandito dalle campanelle del cambio dell'ora, da un appello, da un'altra campanella e un altro appello ancora. Poi di nuovo ottantasette passi, la confusione all'interno dell'autobus e casa.

Silente. Fredda. Vuota. Proprio come il suo petto.

Ad aspettarla c'erano solo gli spettri della sua vita passata e delle speranze che aveva nutrito, che crudelmente aleggiavano come corvi funesti sopra ad una carcassa in bella vista.

Quando rientrava, alla fine di ogni giornata, andava in quella che era stata una camera matrimoniale condivisa, si toglieva gli indumenti e infilava una leggera vestaglia, aspettando il momento peggiore.

Lo specchio era incorporato a un'anta dell'armadio e rifletteva per intero la sua figura sciupata.

Odiava vedersi lì, in piedi, pronta a respirare, a vivere ancora.

Il suo viso la disgustava, la osservava di rimando con fare accusatorio, gli occhi scuri percorsi da un leggero luccichio di pazzia.

Quella sera, però, era estremamente calma. Gli occhi erano più vitrei, i movimenti maggiormente misurati, i capelli un groviglio inestricabile.

Si osservava, innaturalmente rigida di fronte allo specchio, e contava ogni respiro. Contava il numero di volte in cui batteva le palpebre e ogni volta che con la lingua umettava le labbra secche.

Lo specchio rifletteva anche il letto alle sue spalle e la fotografia appesa poco sopra la testiera.

«Tu», cominciò esitante, concentrandosi sulla deformazione del suo viso. Rimase in silenzio per alcuni secondi, prima di riprendere controllo della voce.

«Tu non hai idea di cosa ho dovuto passare per riuscire a guardarti negli occhi e provare il nulla».

Lo disse al suo riflesso, osservandolo come si guardano le cose che non destano neanche il minimo interesse. Lo disse al riflesso di Federico, incorniciato insieme a lei in quella maledetta fotografia del loro matrimonio che era appesa alla parete.

«Ti guardo negli occhi e provo il nulla».

Aveva mosso solo leggermente la lingua e dischiuso di poco le labbra. Il suo corpo sembrava prigioniero di catene invisibili. Rimase così per gran parte della serata, mentre il cielo da turchese si era fatto violaceo, la luce nella stanza era andata via via diminuendo e la temperatura si era abbassata.

«Il nulla» sussurrò, appannando lo specchio con il suo alito caldo.

E con uno scatto repentino portò indietro entrambe le braccia, chiudendo le mani a pugno, per poi schiantarle con tutta la forza che aveva contro lo specchio.

Il rumore del vetro infranto che si sgretolava e cadeva a terra cancellò il silenzio, mentre il sangue che le colava dai graffi, rigando i polsi e tracciando innumerevoli sentieri sulla sua pelle, era la giusta penitenza per il suo respiro ostinato e i suoi occhi ancora troppo vivi.


Brano ispirato dalla seguente frase, tratta dal film Genius:
"Tu non hai idea di cosa ho dovuto passare per riuscire a guardarti negli occhi e provare il nulla."

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 29, 2017 ⏰

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