Non ti scordar di me - Amore vero

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Eliza sentiva che non avrebbe potuto resistere un giorno di più. Le sue ossa erano fragili, il suo corpo si era ridotto a uno scheletro, qualche nervo, e niente muscoli. La pelle era sempre più tirata, il colore sembrava malsano, e il reticolo di vene bluastre che si poteva vedere sotto di essa la faceva sembrare carta velina. Eliza sapeva di essere bruttissima. Un relitto umano. Persino i capelli avevano perso la loro consistenza e la loro luminosità. A cosa serviva continuare a vivere così?

Si costrinse a riprendere il lavoro, per Meir, perché sapeva che lui contava su di lei. Cercò di trascinare il carico di granito che portava nella carriola, ma le sue braccia erano così deboli che il peso delle pietre ebbe la meglio su di lei, che inciampò e cadde a terra. Le lacrime arrivarono prima che potesse permettersi di bloccarle. Oh, Meir, non ce la faccio questa volta, perdonami, ti prego! Non ci riesco! Si vergognò di se stessa, della sua debolezza, di quello che la avevano costretta a diventare. E nonostante tutto l'odio che aveva in corpo, non riuscì a rialzarsi ancora una volta. Non riuscì a compiere quell'ultimo segno di protesta. Presto un ufficiale l'avrebbe trovata riversa a terra, sporca, sudicia, col volto rigato di lacrime nere, e avrebbe capito che lei non serviva più a niente. Che poteva essere messa da parte. Restò così, con gli occhi chiusi e le orecchie ronzanti, chiusa nel suo dolore, finché due mani non la scossero. Era Meir, che ancora una volta l'aveva trovata appena in tempo. Meir, che non si sarebbe mai, mai arreso a quel destino che gli era stato riservato. Era sporco e magro pure lui, eppure agli occhi di Eliza restava bello come la prima volta, quando avevano dovuto camminare a un metro di distanza l'uno dall'altra, sotto lo sguardo vigile dei suoi genitori, scambiandosi poche fugaci parole e tanti brevi sguardi intensi. La raccolse da terra, senza dire una parola. Si guardò intorno, e appurato che non c'erano guardie nelle vicinanze la prese in braccio. Anche se Eliza doveva pesare al massimo trentacinque chili, si sentì ancora una volta in colpa per caricare Meir di quel peso in più. Fisico, ma anche morale. Eliza voleva disperatamente vivere, ma non in quel posto, non a quel prezzo. Meir corse per raggiungere una delle baracche dove erano relegati gli ebrei. Miracolosamente nessuno li notò; ma se li avessero scoperti, la punizione sarebbe stata esemplare. Giunto davanti alla porta di legno, Meir adagiò Eliza sulle sue gambe. Ce la fai? sembravano dire i suoi occhi. Eliza annuì leggermente. Allora Meir prese a bussare con foga alla porta di legno, con tutta quell'energia che Eliza non sapeva più come trovare all'interno di sé.

«Dan, maledizione, apri questa cazzo di porta!» imprecò Meir.

Il vecchio si fece aspettare almeno un minuto, così tanto che Eliza cominciò a pensare che le gambe avrebbero ceduto ancora. Poi aprì la porta. Meir la spinse all'interno, sputando ai piedi del vecchio, poi quando la porta fu nuovamente chiusa la portò in braccio fino al loro angolo di pavimento, oltrepassando gli altri corpi ammassati a terra. La posò delicatamente e le si sedette vicino, facendole da cuscino. Eliza non trovava nemmeno la forza per ringraziarlo. Il suo corpo ormai bruciava, e allo stesso tempo brividi incessanti le percorrevano tutto il corpo. Meir le accarezzò prima i capelli, poi una guancia. Col pollice si soffermò sul contorno delle labbra. Chinò la testa per lasciare il lieve tocco della sua bocca sulla fronte di lei. Poi la cullò, mentre scendeva la notte, mentre lo stomaco borbottava e la bestia che si era impossessata di Eliza la corrodeva senza pietà. Passarono gli ufficiali a ispezionare le stanze, a controllare che tutti fossero nelle solite condizioni fisiche, che nessuno fosse riuscito a scappare per denunciare quegli orrori che venivano nascosti al mondo solo grazie a delle mura di pietra. Se bastavano solo dei muri per far ignorare la verità alle persone, allora nemmeno il mondo era degno di essere vissuto, pensava Eliza. Perse conoscenza, fu avvolta nel dolce oblio del niente, nell'assenza del dolore e della paura, e poi tutto finì. Irruppero nella baracca all'improvviso, nel cuore della notte. I bambini cominciarono a piangere, le loro mamme li tenevano stretti al petto. Ma non erano loro a dover temere. Gli ufficiali presero Eliza e Meir. Erano stati scoperti. Meir cercò di lottare, urlò, scalciò con tutte le sue forze, ma i tenenti erano più alti e più forti di lui.

«Eliza no! No!» E quelle grida bastarono per spezzare Eliza in mille pezzi. Fu sbattuta per terra, costretta a strisciare, febbricitante e dolorante, finché non riuscì a raggiungere il terreno polveroso oltre la porta della baracca. Lì la sollevarono e la trascinarono di peso. Le urla di Meir continuavano a fare da sottofondo alla loro tragedia e insieme avvisavano a tutti i vicini quello che stava succedendo. Li portarono in una piccola anticamera interrata e li lasciarono lì sotto, con l'ordine di togliersi i loro indumenti, davanti a una fredda porta metallica. Eliza rannicchiata per terra, lo sapeva bene che era la fine. Si spinse contro le fredde mattonelle bianche delle pareti, alla ricerca di un po' di freddo che placasse la tempesta di fuoco che imperversava nel suo corpo, impedendole quasi di pensare. Meir riuscì a mantenere il proprio contegno anche in quel caso.

«Ci sono io, Liz. Ti aiuto io.»

Liz percepì le sue parole attraverso la nebbia della febbre e del dolore, ma il suo viso si riempì per l'ennesima volta di lacrime, tutte quelle che aveva trattenuto quando era stata più forte, più sana, più bella.

«Se mi vedrai così...non mi vorrai più, Meir. Ti sembrerò un frutto marcio. Qualcosa da buttare via» singhiozzò.

«Non dire sciocchezze Liz. Vieni qui.» Invece fu lui ad avvicinarsi. Le sfilò gli stracci sudici che gli ufficiali avevano avuto il coraggio di chiamare indumenti, e lo stesso fece con i suoi. Le ossa spigolose e sporgenti di Eliza sembravano volersi mettere in mostra a tutti i costi. Il suo corpo era una costellazione di tumefazioni più o meno violacee, a diversi stadi di guarigione. Si vergognava così tanto, persino in quel momento. Ma Meir le accarezzò le braccia, la schiena, e quello che restava del seno. Meir le sfiorò la bocca con la sua. Il loro ultimo bacio. Il loro saluto. Il loro addio.

La porta cigolò e si aprì automaticamente. Meir diede un ultimo bacio a Eliza, lieve, ma con urgenza. E una sola lacrima solcò anche il suo viso.

«Ti amo. Per sempre.»

Oltrepassarono la soglia, poi la porta si richiuse alle loro spalle.

Ispirata da oggi, 27 gennaio, giorno della memoria.

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