Capitolo 2

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Gazebi telonati accoglievano i pranzi di lavoro milanesi, pasti rapidi, senza cuore: pizze al taglio e menu fissi, dessert preconfezionati. Il ristorante era tale solo di nome e sfruttava il traffico incessante della zona. Tanta quantità, poca qualità, in pieno stile globalizzante e globalizzato. In definitiva era un posto nella media. I Capricci del Palato stava su Via Ponti, al civico dieci; era affacciato sul marciapiede e poco distante c'era l'asfalto senza dossi e diviso in due, tratteggiato ad arte proprio nel mezzo, da vernice bianca.

Di rimpetto, al civico tredici, c'era un casermone di ferro, l'Hotel Il Naviglio. Era imponente. Quattro stelle, sette piani, centotrenta camere, dieci suite, due sale convegni, un bar e un ristorante. Un albergo moderno, un'armatura di legno e di metallo, con tratti essenziali, regolari, in perfetto stile minimalista. A una prima occhiata sembrava una palazzina ad uso ufficio. Non dava esattamente sul Naviglio Grande, come invece prometteva l'annuncio su Booking.com. Nell'epoca del e-commerce il cliente va accattivato, raggirato quel tanto che basta, sperando che quando si accorge del bluff sia ormai talmente stanco da non protestare, e anche se protestasse si può sempre applicare uno sconto sul pernotto, o rilasciare un coupon da usare in un altro periodo dell'anno. I soldi e il tempo risolvono sempre tutto, o quasi. E poi per il Naviglio Grande bastava qualche fermata d'autobus o due passi a perpendicolo, fino a incrociare via Ludovico Il Moro.

In una città così moderna e organizzata anche un forestiero riesce ad orientarsi senza troppa fatica. Una zona ordinata quella intorno a Via Ponti, pulita, che da una certa ora in avanti vestiva i panni del quartiere alla moda, mantenendo angolature pittoresche. Immense mandrie di brillanti imprenditori, studenti, turisti, adolescenti e spacciatori, uomini e donne, tutti insieme, appassionatamente, affollavano i locali su entrambe le sponde; le serate sul Naviglio Grande erano davvero uno spettacolo, un gran bello spettacolo. Lo era perché tutta quella gente si abbandonava finalmente alla gioia del week end, dopo una settimana di lavoro precisino ed ingessato; lo era – uno spettacolo – perché il brusio che proveniva dai pub, il tintinnio dei calici che si alzavano al cielo in segno di liberazione, era un suono di libertà. Tutta quella luce che si mischiava al buio della sera e si rifletteva a specchio, sull'acqua, a perdita d'occhio, fino all'orizzonte, raggiungendo le prime ore dell'alba. Milano è una città viva, splendente. Chi la definisce fredda ed insensibile non ha mai vissuto il brulichio dei suoi quartieri eleganti, i suoi angoli creativi, e i suoi straordinari artisti di strada; chi la definisce così non conosce le meraviglie di questo angolo di mondo metropolitano.

Il salto dalla capitale geografica a quella economica non fu cosa da niente. A Roma avevo trovato equilibrio e lì avevo conservato una parte dei colori tipici della provincia palermitana nella quale ero nato e dove ero cresciuto, all'ombra di un cognome rispettato, ma ingombrante.

In Sicilia non avevo mai avuto bisogno di presentarmi per nome. La storia della mia famiglia mi anticipava, aveva sempre parlato per me, e nonostante fallimenti ed incompiute rimanevo figlio, fratello, cugino, amante o amico di qualcuno, vivendo di luce riflessa. Vivevo di rimbalzo, di rendita. A trenta chilometri da Palermo tutto era semplice e maledettamente insulso. Amavo – ed amo - la mia terra, ma volevo lasciarla, così da poterci tornare con un altro sguardo, con lo sguardo di chi si è visto dentro, trovandovi un altro mondo.

A Milano pensai di applicare le stesse ripartizioni esistenziali che adoperavo in Sicilia, dove niente aveva un colore netto e tutto era contraddittorio. Dalle mie parti ogni cosa era annacquata nella forma e nella sostanza, incoerente, e credevo possibile – necessario per certi aspetti – proseguire su quella strada. Da dove venivo io non c'erano carnefici né vittime. Ognuno giocava la sua partita con la vita scendendo a tutti i compromessi necessari, senza vergogna, senza porre veti morali, senza nessuna condizione da porre. Era una resa incondizionata alla necessità di sopravvivere. Tutto andava bene, era accettabile, purché riscattasse dalla miseria della disoccupazione. Non c'erano buoni, non c'erano cattivi. L'obbiettivo era uno, e uno soltanto: il pane. A Milano, in quel nord che avevo sempre visto attraverso telegiornali e film, non era molto diverso. Pensavo di trovare ordine e disciplina, ma la realtà era molto diversa da come me l'aspettavo. Cercai subito punti di riferimento che andassero oltre la mia attività lavorativa; cercavo un bar nelle vicinanze dell'hotel, nel quale spendere quotidianamente le mie ansie, dove poter fare colazione, scambiare due chiacchiere e dove potermi sentire in qualche modo parte di una città troppo grande per essere abbracciata tutta, troppo grande per essere raccontata. Il bar sarebbe stato il simbolo della provincia perduta.

Il Naviglio, di notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora