Prologo

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Scendo dall'auto e osservo Jacob fare lo stesso. Chiude la portiera con un tonfo, mentre papà scarica le valigie ai miei piedi. Si gratta nervosamente la nuca. Fa per salire sull'auto ma io gli afferro un braccio e lo costringo a voltarsi.

Ha sempre avuto un bel viso papà, nonostante la ragnatela di rughe che si era andata a disegnare con gli anni intorno ai suoi occhi vispi e ai lati della bocca. Il sorriso che di solito gli incurva le labbra non c'è. I suoi occhi sono vuoti, privi della lucentezza che gli conferiva uno sguardo rilassato.

Questo non è papà, mi ripeto mentre sento il viso andarmi a fuoco per la rabbia. Non ha rispettato i patti, ha preferito proteggerci. Ma adesso non è più in lui.

Abbasso lo sguardo e allento la presa su di lui. Jacob mi passa un braccio sulle spalle e mi schiaccia contro il suo corpo. Sospiro cercando di controllare le lacrime.

Ritiro la mano e papà si gira, entrando nell'auto e sbattendo la portiera davanti a noi. Soffoco un gemito e mi allontano di qualche passo, mentre lui imbocca la strada per il ritorno.

È perso per sempre. Non sarà più lo stesso.

Mi asciugo con il dorso della mano una lacrima che mi è sfuggita. Non posso piangere. Doveva succedere, anche se avrei preferito che fosse meno rude e triste.

Jacob intanto si piega accanto a me per afferrare il suo bagaglio. Lo imito e mi monto sul dorso lo zaino che mi sono portata dietro.

Mi volto indietro e individuo un cartello stradale che recita: 'Benvenuti a West Hill'. È logoro e incrostato di sporcizia, e, nonostante le sue ristrette dimensioni, è la prima cosa che mi salta all'occhio.

Dietro, un lungo campo secco di erba si estende per circa un chilometro quadrato. Al suo interno corrono sentieri delimitati da file irregolari di sassi, che conducono ognuna ad un'abitazione in pietra. Queste case sono piccole e con un'unica finestra sulla facciata anteriore, a destra della massiccia porta di legno scheggiata.

Al centro del campo un gruppetto solitario di alberi bassi, nodosi e avvizziti accerchia un cumulo di pietre grigie e piatte. Sono disposte una sopra l'altra, disordinatamente, eppure la costruzione non crolla. Raggiunge una discreta altezza. Supera le cime intricate degli alberi e continua a salire in alto.

Jacob è al mio fianco e osserva una costruzione in vetro che sembra più recente. Deduco che è una serra. È piuttosto grande, e riesco a intravedere vari tipi di ortaggi coltivati al suo interno. Vicino, dei blocchi di pietra scuri sono allineati in semicerchio. Mi ci siedo. Jacob prende posto accanto a me.

Chiudo gli occhi e tendo le orecchie. Capto una serie di suoni. Il respiro regolare di Jacob; il fruscio delle foglie secche che si posano alle radici degli alberi; un uccellino stonato che fischietta; il battito accelerato del mio cuore; il mio respiro affannoso;

«Sai cosa dobbiamo fare».

La voce di Jacob mi sembra distante, e quasi non la avverto. Deglutisco e riapro gli occhi. Lui mi stringe la mano e sorride forzatamente. So che anche per lui è difficile lasciarsi alle spalle tutto questo. I suoi occhi sono inespressivi e la sua bocca ora è leggermente piegata verso l'alto, e la curva deforme che si dipinge sul suo volto gli dona una solennità triste. Non lo dà a vedere, perché è un mentitore nato, però capisco che è davvero sconvolto, almeno quanto me.

È così abile a nascondere le proprie emozioni che spesso mi dimentico che anche lui è umano e come tale soffre. Negli ultimi tempi non ho fatto che scaricargli addosso responsabilità che non voleva, e adesso i sensi di colpa mi stanno divorando.

Ricevo tutte quelle informazioni in poco tempo. Non mi sono ancora completamente abituata all'idea di essere costantemente in comunicazione con i pensieri e le emozioni di mio fratello, così come lui lo è con le mie. Abbiamo un legame che va al di là del semplice rapporto tra due gemelli.

Papà l'aveva detto. Una coppia di gemelli è perennemente in contatto. Una specie di frequenza che solo noi due possiamo usare. Un filo che ci lega oltre al sangue.

Non lo dico a voce alta, ma cerco di trasmetterlo anche a Jacob. Voglio che sappia che ci sono. Un secondo sorriso gli increspa le labbra, ma anche questo è forzato e malinconico.

«Sei pronto?» domando, e inaspettatamente mi trema la voce. Annuisce. Ci alziamo entrambi in piedi, ma prima che possa fare qualsiasi cosa, Jacob mi stringe a sé fra le sue calde braccia.

«Ti voglio bene, e non importa che cosa succeda da oggi in poi. Sappi che continuerò ad amarti, Relia»

Sospiro e cerco di trarre sicurezza dalle sue parole, anche se non sono affatto certa che il nostro rapporto fraterno rimarrà lo stesso. Temo che da un giorno all'altro lui si allontani da me, e non posso permetterglielo. È l'unico della famiglia che mi sia rimasto.

Papà aveva accennato che finita la maturazione dei propri poteri, la personalità di un individuo tende a cambiare, a volte pure drasticamente, a volte minimamente.

Nel saperlo, un leggero tuffo al cuore mi aveva assalito, e il timore si era rifugiato in me, nell'angolo ombroso della mia mente. Ogni volta che mi capitava di ricordare le parole di papà, il tuffo al cuore tornava.

Ho paura di perdere Jacob.
Ho paura di perdere me stessa.

Mi traggo via dall'abbraccio. Mi avvicino alla torre di pietre e tendo una mano per sfiorarla con le dita. Queste particolari costruzioni sono dette 'Stazioni', per la loro capacità di condurre le persone con capacità sovrannaturali (che papà ha chiamato 'Geneta') in qualunque luogo, purché possieda una Stazione a sua volta.

Jacob si posiziona di fronte a me e annuisce. Possiamo andare.

Chiudo gli occhi e richiamo un'immagine, un posto in cui guizzano voci allegre e risate. Un posto pullulante di gente come me, dove sentirmi comune. Un posto che può aiutarmi a capire chi sono. Un posto da chiamare casa.

D'un tratto non sento più la terra sotto i miei piedi e avverto una sensazione di sollievo. Il peso del mio corpo scivola via e la sensazione di libertà si fa strada dentro di me. Fluttuo per un po' nel vuoto, mentre continuo a tenere gli occhi chiusi. Poi mi sento improvvisamente proiettare verso l'alto ad una velocità incontrollabile, e urlerei dall'emozione se non fosse per il fatto che devo mantenere la concentrazione ad un livello alto.

Sento i pensieri di Jacob in un angolo della mia testa tacere. Sta cercando di combattere anche lui il brusio prodotto dall'incessante vorticare di emozioni e sensazioni mai provate prima. Forse è questo che ci aspetterà d'ora in poi, e non mi dispiacerebbe vivere continuamente percependo una felicità folle e l'adrenalina salire.

Se liberandomi del mio corpo ho dato maggiore spazio ai miei sentimenti, non ho ancora provato nulla  penso.

In quel momento, la sensazione di volare si arresta, e mi pare di cadere. Apro di scatto gli occhi e l'impatto sul suolo contro le mie gambe rigide mi causa un acuto dolore agli arti inferiori e alla schiena. Anche se non ho più un vero e proprio corpo, non sono uno spettro e posso ancora provare dolore fisico.

Mi riprendo da questa ventata fresca di pensieri e adocchio Jacob. È piegato sulle ginocchia. Si risolleva subito facendo leva sui palmi delle mani.

«E adesso?»

Quando Jacob scandisce quelle parole, mi guardo intorno. Siamo circondati dal buio, fitto e silenzioso. Troppo silenzioso per essere reale. Deglutisco, ricordandomi cosa mi aspetta.

L'ultima cosa che vedo è l'immagine di mio fratello che si fa sempre più confusa.

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