Capitolo 2

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La mia mente è una landa silenziosa e vuota. Riesco a percepire la quiete che vi alleggia, così solida da poterla quasi toccare, e mi guardo intorno.

Potrei definire questo posto un paradiso, ma non ci ho mai creduto ed è troppo sinistro per poterlo essere. Forse sono in una sorta di coma spirituale, dovuto alla mia sconfitta.

Ho perso contro il mio lato primitivo, oscuro, che ho sempre tentato di sopprimere sapendo che era lui la causa di tutti i pensieri violenti che mi passavano per la testa. Attribuivo a quella parte di me ogni lacrima di dolore versata da qualcuno che avevo ferito io.

Il luogo in cui mi trovo è illuminato da una soffusa luce chiara, brilla di un colore così omogeneo che non riesco a definirne i contorni. Mi sembra di essere sospesa nel vuoto.

Mi sposto leggermente, per sentire il pavimento bianco sotto i miei piedi. La suola delle scarpe stride a quel contatto e il suono mi rassicura. Sono appoggiata su un piano, anche se non mi sembra affatto.

Faccio qualche passo in cerchio, giro attorno ad un punto invisibile su cui sono puntati i miei occhi. Una macchia candida indistinguibile dalle altre, che però è comunque sola nell'immagine che si forma nella mia mente.

Piccola, bianca, invisibile, profonda. Una chiazza così chiara che mi brucia gli occhi. Il mio sguardo è attirato da quell'insignificante punto che si fonde nel freddo colore della sala. Non c'è nulla di accogliente lì.

Rabbrividisco e distolgo lo sguardo. Devo uscire.

Per quanto ne so, potrei aver già perso, oppure questa è un'altra prova. Senza rimuginarci troppo, mi metto a correre.

Corro seguendo una linea dritta immaginaria, mantenendo il respiro regolare e coordinando i movimenti del corpo. Mi piace la sensazione di potere che avverto nel saper gestire queste piccole cose. Significa che non è ancora tutto perduto.

Il piano su cui mi scivolo veloce si inclina notevolmente e i miei passi si fanno più corti e rapidi. Inciampo con i piedi, striscio le suole sul pavimento, sposto goffamente il peso del corpo in avanti e indietro, cercando di assumere un'andatura più aggraziata.

Il controllo. Si tratta del controllo.

Non devo perderlo, o questo implicherà che anche l'ultima opportunità per riacquisire la mia persona, così come sono, brucerà.

Mi fermo bruscamente saltando. È questo il primo pensiero che mi viene in mente, un gesto automatico: saltare. Atterro pochi centimetri più avanti e il piano si raddrizza... E un momento dopo è inclinato verso la direzione opposta.

Agito le braccia con foga mentre indietreggio pericolosamente, incespicando e saltellando sui talloni e le punte.

Non ha senso combattere mi ripeto. Nel pensarlo provo una scarica di terrore e ribrezzo verso me stessa, ma interrompo lentamente i miei movimenti.

Mi lascio cadere e atterro sul sedere; scivolo all'indietro, senza preoccuparmene troppo. A volte una mente rilassata fa più comodo di una soffocata dal misto di ansia e adrenalina, mi convinco.

Ovunque il moto mi stia trascinando, non ha importanza. Lascio che la velocità aumenti, sollevo le mani e le appoggio sopra le cosce. I jeans scuri che indosso stonano contro tutto quel bianco.

Sbatto la schiena contro qualcosa di liscio e duro e mi massaggio le spalle. Una parete bianca, solida e dritta e imponente. Emana un certo fascino. È l'unica cosa in quel posto di cui riesca a riconoscere i tratti e le ombre.

Senza esitazioni, cado all'indietro con tutto il peso del corpo e attraverso la parete senza troppi problemi. Esattamente come nella prova precedente, solo che ora so cosa fare.

* * *

Sto facendo un viaggio nella mia mente. Piegata su me stessa, scivolo lentamente sul pavimento, che adesso è un pannello di vetro sottile che si crepa sotto il mio peso. Mi spingo più velocemente dandomi slancio con le mani.

Toccando il pavimento sento delle piccole scariche elettriche scuotermi le dita, ma non ci faccio caso. Voglio uscire da lì il prima possibile.

Freno bruscamente. È stato un movimento involontario il mio, e questo pensiero mi agita ancora di più. Controllo. Il controllo. Concentrati!

Mi ripeto queste parole in testa, finché non sento un ronzio insinuarsi nei miei pensieri. Un brusio dolce e pacato, che si fa intenso e duro, e scandisce i rintocchi di una campana. Il rombo si propaga nella mia testa e mi stordisce.

Mi massaggio le tempie e chino la testa, stringendo i denti. Controllati controllati controllati.

Riordino i pensieri, o almeno ci provo, e respiro più lentamente. Strizzo gli occhi e mi ranicchio a terra.

Controllati controllati controllati.

La voce di mia madre grida il mio nome, fende l'aria e mi confonde le idee. E poi la rivedo, stretta nella sua vestaglia bianca, sorridermi poco convinta mentre beve a lunghi sorsi il caffè dalla sua tazza verde a pois.

Piango, perché non la rivedrò mai più e il solo pensiero mi scava un vuoto nel petto. Piango, perché mi fa male doverla ricordare, vederla in questo stato mentre mi mentiva assicurandomi che stesse bene.

Un attimo prima mi sfiora la guancia e un attimo dopo si è già ritirata dalla mia mente. Perché l'ho voluto io, ho voluto io che lei se ne andasse, e questo mi fa ancora più male.

Piango, finché la testa non mi pulsa e la schiena si incurva sotto il peso dei miei singhiozzi. Non cerco di soffocarli questa volta, come avevo fatto anni fa, ma lascio che il dolore fluisca dai miei pensieri e dai miei ricordi.

Sollevo debolmente il capo, asciugandomi le lacrime. Non ora  mi ripeto.

Scatto in piedi, stringendo i pugni e conficcandomi le unghie nei palmi. Il labbro inferiore mi fa male, devo essermelo morsa senza rendermene conto, e le guance sono ancora un po' bagnate.

Il mio battito cardiaco è regolare, così come il mio respiro, e dopo aver ripreso la calma lo scenario che mi ospita cambia e sono distesa in un campo simile a quello di West Hill, ma non lo è. Le abitazioni sono più colorate e moderne, e il silenzio è continuamente rotto dal ronzio di voci soffuse.

Sospiro e rimango ferma, e a poco a poco sorrido, poi rido, finché il mio non si trasforma in un verso imponente, che mi scuote il corpo.

Inspiro l'aria fresca a pieni polmoni e muovo le dita, accarezzando i fili d'erba.

Ce ne hai messo di tempo fa una voce nella mia testa.

È Jacob. Sorrido nel sentire la sua voce e mi alzo in piedi. Mi giro e lo trovo accanto a me, con la schiena dritta e lo sguardo colmo d'orgoglio. Lo abbraccio e subito dopo lui mi accompagna vicino ad una folla di ragazzini urlanti che ridono e mi abbracciano a loro volta.

«Benvenuta nella Palude» esclama un coro disordinato di voci. E io continuo a ridere, perché ce l'ho fatta, e sono ancora me stessa. Sono ancora Relia Hutterson, Relia l'Umana, Relia la Geneta.

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