Come perdoniamo noi stessi per tutto ciò che non siamo mai diventati?
Mi domando ancora come sarebbe la mia vita se avessi preso decisioni diverse da quelle che presi a tempo debito.
Avrei dovuto seguire le mie passioni, prendere lettere e non medicina all'università.
Eppure, non avrei mai conosciuto Ivar.
È stato un incontro singolare il nostro, devo ammetterlo.
Mi trovavo all'angolo sinistro del bancone dell'unico bar che vende alcolici dopo le tre di notte a piazza Venceslao, a Praga.
Ero ormai al quinto bicchiere di assenzio. Avevo lasciato l'obitorio dell'ospedale da poco e il fantasma dell'ultimo cadavere che avevo ispezionato continuava a tormentarmi. Una bambina di 12 anni. L'avevano stuprata e poi massacrata di botte. Roba pesante quella, cazzo. Non ho mai affogato i miei pensieri nell'alcol ma quella sera bere qualche bicchiere era l'unica soluzione per evitare che l'immagine di quel visetto innocente, contornato da capelli biondi ancora sporchi di sangue, mi tornasse in mente.
Dondolavo la mia gamba destra per ammazzare il tempo, mentre il mio dito continuava a disegnare la circonferenza del bordo del bicchiere in vetro, che proiettava una leggera ombra sul tavolo ben pulito e curato.
Poi lo vidi.
Era appena uscito dal bagno con una ragazza dalla chioma rossa accanto. Camminava barcollando, aveva sicuramente bevuto qualche bicchiere di troppo, ma lui era fermo, dritto, saldo al terreno- quasi come le statue greche.
Le lasciò la mano piano, sciolse le loro dita intrecciate e la accompagnò fino ad un divanetto in pelle azzurrina, dove sembrava quasi che la stesse lasciando morire, mentre io seguii la scena con la coda dei miei occhi verdi, stanchi e sofferenti.
Presi l'ultimo sorso del mio bicchiere e lasciai i soldi sul bancone, alzandomi per andare via, dopo essermi rimessa il cappotto nero ancora un po' bagnato dalla pioggia.
Sentivo i suoi passi dietro di me.
Misi una sigaretta tra le labbra tinte di rosso. Mi ero concessa di mettere una veloce passata di rossetto poco prima di uscire dall'ospedale in modo da distogliere l'attenzione dai miei occhi e cercare di essere meno scossa.
«Signorina»
Un tuono che squarcia il silenzio. Un lampo a ciel sereno.
La sua voce rauca, ma allo stesso tempo dolce, elegante, aveva fatto scoppiare in un istante la bolla di sapone immaginaria che era attorno a me.
«Si?» mi girai e lo guardai dritto negli occhi. In quegli occhi blu, oscuri come il mare, che nascondevano abissi di segreti e che riflettevano la luce della luna.
«Sta piovendo, e lei è senza ombrello. Posso accompagnarla a casa?»
«Preferirei camminare da sola, grazie lo stesso»
«La prego, lo prenda almeno» e mi porse l'ombrello bianco, fin troppo appariscente per i miei gusti, ma che accettai riluttante, sforzandomi di sorridere, per non continuare la conversazione. Avevo solo bisogno di tornare a casa e di restare sola nella mia vasca da bagno per un po'.
Accennò un sorriso e andò via.
Non mi accompagnò a casa, accettò rassegnato la mia decisone e mi diede le spalle, scomparendo sotto la pioggia.La seconda volta che lo vidi fu alla Národní Galerie, nella sala dedicata a Klimt. Andavo spesso nei musei quando potevo; non c'era nulla di meglio che perdersi per un po' con la mente nell'arte per non pensare al lavoro.
Certo, amavo il mio lavoro- era sempre stata la mia passione, eppure era pesante. C'erano dei giorni in cui tutto ti feriva a morte, persino la vista del corpo di un anziano deceduto per arresto cardiaco.
Quello fu uno di quei giorni.
Praga era piovosa come sempre ed io ero ancora alquanto fradicia- così come quasi tutti nel museo- mentre osservavo Il giardino fiorito.«Non capisco cosa ci sia di bello in questo quadro» esordì.
«Questo è suo» dissi porgendogli l'ombrello che mi aveva prestato la settimana prima. Mi piaceva camminare sotto la pioggia, dunque non mi ero mai sentita in dovere di comprarne uno, eppure quel giorno il ticchettare delle gocce era più insistente del solito ed ero stata costretta ad usare il suo.
Lo prese e accennò un sorriso cordiale, contenuto da un'eccessiva formalità, quasi soffocante, accentuata anche dal suo vestito grigio e dai capelli tirati indietro perfettamente, non scompigliati come quella sera.
Mi lasciò per una manciata di minuti per poi tornare.
«Allora? Le piace questo quadro?»
«Non lo so» ammisi «mi piace solo guardare»
«A me non piace Klimt. Preferisco altre correnti artistiche»
Rimasi in silenzio. I suoi occhi mi intimorivano ancora, c'era qualcosa nel suo modo di fare, nella grazia che aveva in ogni gesto che compiva, nel modo in cui parlava, che mi faceva sentire fuori posto ed insicura di me.
«Siete di poche parole»
Rimasi in silenzio nuovamente.
«Meglio così, preferisco il silenzio»
Restò accanto a me per più di mezz'ora. Fissammo il quadro assieme, ma nessuno dei due prestava attenzione; la mia mente stava per esplodere e avevo fin troppi pensieri per prestare attenzione anche a lui.
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Daffodils.
General Fiction«Ivar ne aveva uccise già un paio prima di me. Di donne, dico. Non in senso letterale però, non aveva mai alzato un dito contro nessuno, se non per accarezzarmi mentre facevamo l'amore- o almeno così credevo io. Purtroppo Ivar amava solo se stesso...